lunedì 10 ottobre 2022

Solo un piano Marshall per i piccoli comuni potrà salvare il Fortore

Nel 2018 venni contattato dal beneventano Alessandro Caporaso, all’epoca studente universitario in scienze geografiche alla Sapienza di Roma, per un’intervista da inserire nella sua tesi di laurea sulle problematiche delle aree interne, in particolare modo del Fortore. Dopo quattro anni, in cui tante cose sono successe e cambiate, ho deciso di pubblicarla sul mio blog, sperando che apra una seria riflessione sul futuro dei nostri paesi. 
Ecco il testo integrale

Intervista ad Antonio Bianco, giornalista, scrittore e esperto di storia del Fortore.

Analizzando i dati demografici Istat della provincia di Benevento, emerge come negli ultimi 35 anni (dall'82 al 2017) l'intero Sannio stia attraversando una fase negativa a livello demografico. Secondo il suo parere, è un dato che va di pari passo con le problematiche della Nazione (quindi una natalità pari a zero ed un invecchiamento massiccio della popolazione con tassi di mortalità superiori alle nascite), oppure vi sono altri fattori che si celano dietro tale problematica?

«In parte sì, ma a mio avviso la dinamica demografica dell’intero Sannio va inquadrata in quella più generale dell’emigrazione che investe soprattutto il Sud. Le cause di questo nuovo esodo vanno ricercate soprattutto in due fattori: la grande crisi economica che ha investito l’Italia dal 2008 e il taglio dei trasferimenti statali alle regioni meridionali. Un mix di fattori che sta trasformando il nostro territorio, e soprattutto le aree interne, in un deserto demografico, spingendo migliaia di nostri concittadini a trasferirsi altrove.

Altro dato particolare ed analogo, risulta essere il calo demografico constante del capoluogo di provincia Benevento. Esso, rispetto agli altri quattro della Regione, quali: Napoli, Salerno, Caserta e Avellino, presenta un calo demografico evidente negli ultimi trentacinque anni. Ciò sorprende, in quanto Benevento dovrebbe essere il principale polo di attrazione all'interno della Provincia, rappresentando un'alternativa per quelle aree interne maggiormente isolate. Come si spiega questa controtendenza del capoluogo Benevento?

«Gli ultimi dati Istat sono impietosi: il capoluogo Benevento ha un saldo negativo di circa 1.300 persone, scendendo sotto i 60mila abitanti, con una perdita del 2 per cento della popolazione. Mentre le altre province della Campania, anche se di poco, risultano avere un saldo positivo. Sicuramente questa performance negativa è dovuta ad un sistema produttivo storicamente più debole rispetto agli altri capoluoghi della Campania, ma soprattutto ad una carenza di infrastrutture (materiali e immateriali) che penalizzano il capoluogo di provincia. Questi fattori fanno sì che la città di Benevento sia poco attrattiva per chi cerca un lavoro o nuovi stili di vita, preferendo spostarsi nel nord Italia o nei Paesi del nord Europa.

Evidenziato il problema del capoluogo Benevento, vorrei soffermarmi sulle zone maggiormente interessate dallo spopolamento: il Tammaro-Titerno e in modo particolare il Fortore. In alcuni paesi come Montefalcone o Castelvetere, la popolazione, in trentacinque anni, si è quasi addirittura dimezzata. Tutto ciò come ha modificato l'assetto della società e quanto ha inciso su di essa e sull'economia della zona?

«
Sì, in effetti, i comuni che lei ha citato rischiano addirittura la morte demografica. Cioè rischiano, entro venti/trenta anni di diventare delle gosht town, dei paesi fantasmi. Oggi questi comuni hanno una popolazione che si attesta intorno ai mille abitanti. Diventa chiaro che un calo della popolazione significhi meno reddito, meno consumi e meno servizi. Si pensi all’agricoltura, che fino a qualche anno fa, insieme alle rimesse degli emigranti, aveva garantito un tamponamento allo spopolamento di queste zone. Oggi l’abbandono delle terre – anche se ci sono piccoli segnali di inversione del fenomeno – contribuisce al loro impoverimento socioeconomico.

Questo spopolamento ha comportato anche una perdita di tradizioni culturali e caratteristiche sociali di questi luoghi?

«Più che lo spopolamento, l’impoverimento culturale di queste aree è dovuto soprattutto alle grandi trasformazioni sociali avvenute negli ultimi trent’anni, con l’avvio della cosiddetta globalizzazione, che ha imposto il suo pensiero unico. Ad aver cambiato l’identità di questi popoli è stato soprattutto l’avvento - parafrasando il sociologo Bauman - dell’homo consumens. In un suo libro il paesologo e poeta Franco Arminio fa notare come oggi nelle abitazioni dei piccoli paesi ci siano tutti i tipi di comfort: tv, play station, telefonini, eccetera. Sembra lontanissima quella miseria che toccavi con mano fino agli anni 70, eppure oggi se giri per queste realtà, tranne durante l’estate, quando ancora ritorna qualche emigrante, non vedi nessuno, sembrano borghi fantasma. Questa è la grande contraddizione di oggi: i giovani hanno tutti i mezzi per informarsi, ma non conosco la propria storia, da dove vengono, qual è la loro origine, ed è questo non conoscere il passato che annulla l’identità e la propria cultura».

Anche lei come molte persone della sua zona ha lasciato il paese di origine per emigrare fuori Regione: è stata una scelta volontaria o forzata?

«Tutt’e due. Diciamo che è stata scelta volontaria quando da giovane, e con la voglia di scoprire il mondo, mi sono trasferito a Roma per studiare alla Sapienza. Forzata poiché dopo alcuni anni che sono rientrato a Baselice, per motivi familiari e di lavoro mi sono dovuto ritrasferire in un’altra città del Lazio. Tuttavia, mi ritengo fortunato poiché non mi sono allontanato troppo dalla mia terra, con la quale ho un legame profondo e viscerale».

Quali sono i principali motivi della fuga dal Fortore?

«Le principali motivazioni restano senza dubbio la mancanza di lavoro e la crisi economica che ha investito in modo drammatico quel poco di economia produttiva che esisteva nel Fortore. Negli ultimi anni ho visto partire intere famiglie, padri (quarantenni/cinquantenni) che hanno perso il lavoro o hanno chiuso la propria attività e sono stati costretti ad emigrare in Svizzera o Germania. Se si percorrono le vie di questi borghi si possono notare decine di case con affissi cartelli con su scritto: “Vendesi”. Tutto ciò è un fatto drammatico che ha impoverito socialmente ed economicamente queste micro-realtà. Non solo. Ormai l’offerta di lavoro è pari quasi allo zero e i giovani, soprattutto quelli con un titolo di studio, sono costretti a andare via anche loro, come dimostrano sempre gli ultimi dati statistici».

Il Fortore è anche un'area della provincia di Benevento avente numerose eccellenze gastronomiche e dolciarie. Potrebbe far leva su questi pilastri culinari per tamponare all'esodo soprattutto giovanile?

«Certo, non tutto è perduto. Abbiamo poli di eccellenza, come il distretto dolciario di San Marco dei Cavoti, abbiamo prodotti di qualità come il rinomato Moscato di Baselice, il cece nero di Montefalcone. Ci sono giovani che stanno tornando alla terra, alla produzione di eccellenze come il recupero di grani antichi, alla riscoperta di prodotti agricoli autoctoni. Questi sono alcuni esempi di come la terra inizia ad essere di nuovo appetibile da parte dei giovani, ma resta chiaro che questa piccola imprenditoria ha bisogno di fare rete sociale e di essere supportata delle istituzioni».

Quanto pesa nello spopolamento di queste aree la carenza di infrastrutture adeguate e reti stradali percorribili in maniera agevole?

«Pesano molto, ma non sono la causa determinante. Oggi le strade del Fortore sono disastrate, impraticabili e sicuramente non aiutano alla mobilità: non aiutano a chi vuole fare impresa, chi per diverse ragioni deve recarsi nel capoluogo di provincia, tuttavia penso che lo spopolamento sia dovuto principalmente alle cause che abbiamo individuato prima. Per fare uscire dall’isolamento queste zone ci vorrebbe un vero piano Marshall per i piccoli comuni, tantoché nemmeno i grossi investimenti privati nell’eolico sono riusciti a tamponare lo spopolamento. Tuttavia, una speranza per invertire la rotta potrebbe arrivare dall’integrazione dei migranti in queste comunità, penso al caso di Castelfranco in Miscano, un paese di circa seicento anime, che attraverso il sistema di accoglienza Sprar, ha visto accrescere la sua popolazione di una quindicina di unità, che per una realtà piccola non è poco».

Come vede il futuro delle aree interne sannite ed in particolar modo del Fortore?

«Il Fortore è stato classificato come l’area più povera d’Italia. Ed appartiene ad una delle province più depauperate del Paese. Ripeto, in un momento storico in cui i governi non fanno più investimenti in queste aree e dove le politiche di austerity hanno imposto i famigerati patti di stabilità, non voglio essere catastrofista, ma vedo un futuro drammatico. A mio avviso riusciranno a sopravvivere solo quelle comunità che avranno la capacità di adattarsi alle nuove sfide e avranno a capo sindaci e amministratori che sapranno mettere in campo idee innovative e non farsi coinvolgere in politiche clientelari, che sono state alla base dell’arretratezza, non solo del Fortore, ma dell’intero Sud».

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