La valle del Fortore |
di Igino Casillo*
È consuetudine che, periodicamente, si riproponga il
dibattito sul divario economico tra Nord e Sud d'Italia e con esso quello dello
spopolamento e isolamento delle aree interne. Una dualità che ha cause antiche e che vede contrapposti,
due territori, due modi diversi di interpretare lo sviluppo. Il sud e il nord,
l'osso e la polpa come li immaginava Manlio Rossi Doria.
In cinquant’anni di politica meridionalistica, si sono fatti
notevoli passi avanti in termini di dotazione infrastrutturale del territorio,
parte del divario è stato colmato ma, nei fatti, non si è mai realizzato quello
sviluppo economico che era nelle aspettative.
Nel frattempo è arrivato l’eolico. La corsa all'energia
buona, all’energia pulita, ha impattato il paesaggio con le sue torri, ma non
ha spalmato il benessere economico tra i suoi abitanti, come promettevano
alcuni e speravano in tanti.
E allora, perché il temuto spopolamento resti tale, il
miglioramento del grado di vivibilità e la creazione di nuove occasioni di
lavoro diventano la priorità e, allo stesso tempo, la variabile strategica da
manovrare velocemente.
Come? Prima di ogni altra considerazione, tuttavia, va sfatato il
convincimento secondo il quale, le aree interne meridionali non hanno risorse
e, conseguentemente, non hanno alcuna possibilità di sviluppo.
Non è vero. È un luogo comune caro a chi, probabilmente, è
inadeguato a gestire queste problematiche e poco accorto ai destini dei
territori e della gente che vi abita.
Il meridionalista Pasquale Saraceno, sosteneva infatti che
"non esistono aree prive di risorse e per questo naturalmente condannate
all’emarginazione. Ci sono solo territori con opportunità diverse" o,
altrimenti detto, meno privilegiate rispetto ad altre.
Nelle aree interne come il Fortore le risorse ci sono sempre
state. C’erano in passato e ci sono oggi, bastava cercarle allora, bisogna
farlo adesso. Ma allora, se le risorse ci sono perché la ripresa tarda ad
arrivare? Potrebbe essere una domanda legittima.
Perché nella realtà le cose sono più complesse è la risposta
altrettanto vera e non si può credere che l’inversione del trend possa avvenire
con palliativi e interventi, a volte inutili, imposti anche in spregio alle
attese del territorio e della sua popolazione.
Al contrario, solo una paziente e non facile ricerca di
nuove sintonie tra condizioni ambientali non modificabili e aspirazioni al
miglioramento può costituire una valida premessa per provare a conseguire
l'obiettivo, ben consapevoli che, in molti casi, gli ostacoli non attengono
tanto a cause economiche o ambientali, quanto piuttosto alla incapacità di
veicolare le risorse in funzione dello sviluppo.
Serve allora, e subito, un cambio di passo. E' necessario
aprire porte lasciate chiuse che facciano entrare aria nuova, provare a
percorrere strade non tracciate che rappresentino il giusto compromesso tra
innovazione, cultura del territorio e politica di riferimento, e, infine, è
fondamentale mettere insieme tutte le energie di cui si dispone.
La politica,
interprete delle istanze che giungono dal territorio e dai suoi abitanti,
l’imprenditoria, che con metodo e capacità deve indicare le risorse e, infine,
il forte sentimento che lega gli abitanti al proprio territorio, che potrebbe
rappresentare il vero collante per un progetto di cui individualmente nessuno
potrebbe mai farsi carico, perché necessariamente ambizioso e comunque
rischioso.
Un’idea tra tante, vede amministratori, imprenditori e
residenti, che stanchi della continua litania dell’attesa, si appropriano del
proprio territorio e del proprio futuro e insieme sperimentano un diverso
modello imprenditoriale che, coniugando obiettivi specificatamente economici
con altri di natura sociale, dia vita ai “Paesi aziende”, ad un business
sociale che dia finalmente vitalità a questi luoghi, trasformandoli finalmente
in una vera opportunità di lavoro per i giovani.
“Paesi aziende” costituite nelle forme giuridiche più
appropriate, con un consistente capitale sociale distribuito tra tutti i
residenti, e non solo, paesi aziende orientate al profitto e quindi gestite con
le regole dettate dai principi dell’efficienza, aziende operanti possibilmente
in settori ad alta intensità di lavoro e che uniscano l’esigenza e la
remunerazione della risorsa lavoro con la necessità imprescindibile di
remunerare anche il capitale investito, producendo e commercializzando beni che
per vocazione e cultura hanno sempre contraddistinto questi territori.
Aziende che si propongano allo stesso tempo l’obiettivo del
profitto e quello della ricchezza sociale, che siano parte di un modello più
umano, quello della promozione dell'economia sociale, la cui particolarità sta
proprio nella valorizzazione del legame degli abitanti con il proprio
territorio.
Una o più aziende per ogni comune, ognuna con una
specificità diversa, ma tutte accomunate dal medesimo modello organizzativo e
tutte possibilmente consorziate nella commercializzazione dei prodotti.
Nulla di nuovo nella letteratura d’impresa, ben consapevole
che ogni approccio metodologico che non sia supportato da certezze scientifiche,
non appartiene tanto alla sfera della verità ma a quella del convincimento
personale.
Se riguarda poi una scienza sociale come l’economia, le sfumature di
incertezza sono sicuramente maggiori e più marcate perché la variabile
indipendente, quella non controllabile, è rappresentata proprio dall’uomo,
dalla sua imprevedibilità, dalla sua mentalità e dal suo livello di conoscenza.
È una sfida che coinvolge tutti e richiede coraggio e
impegno e comporta inevitabilmente una dose di rischio. Tuttavia, riprendendo
le affermazioni di Don Milani e di Mohammad Yunus, se il destino di questi
territori, “ci interessa", allora, “si
può fare”.
*docente di Economia aziendale
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