martedì 11 giugno 2019

Intervista a don Leonardo Lepore: "La politica sia al servizio del cittadino"


Conosco don Leonardo Lepore da quando lui era al liceo. Sono di qualche anno più grande. Ero all'università e lui – mi sembra – aveva appena iniziato il terzo anno delle superiori. Il primo nostro incontro ebbe il sapore di una lotta: lui infervorato seminarista, io convinto militante di sinistra; lui aveva bevuto alla fonte dei preti, io mi ero dissetato alle pagine di Gramsci e della sua scuola; lui per il Vangelo, io per il Capitale. Gesù e Marx. Eppure, nonostante le prime schermaglie, dai pugni si è passato col tempo al fioretto. Oggi le sfide continuano, tra molte risate, senza né litigare, né portarci rancore. Per far sì che il blog si trasformi anche in occasione di riflessione, oltre che di informazione giornalistica, anche a seguito delle ultime vicende elettorali, ho pensato di parlare al telefono con lui, di scambiarci qualche battuta parlando liberamente di ciò che sta succedendo sia intorno a noi e – forse – anche dentro di noi. È nata la seguente intervista che spero in tanti possano avere modo di leggere. Mi auguro diventi per tutti un’occasione per pensare.

Cosa pensi di questo tempo?
Credo sia un momento difficile. Critico.

In senso negativo allora…
Non direi. Parlare di crisi non significa necessariamente descrivere una situazione negativa. La crisi descrive anche un momento di crescita. Le difficoltà non vengono per deprimerci, ma per stimolarci ed incoraggiarci. Un momento di crisi può essere un momento positivo, se la crisi mette in moto una reazione decisa.

Ma i problemi sembrano enormi. Crisi di lavoro, crisi di valori, crisi di senso…
Ma non crisi di pensiero. La vera risorsa dell’uomo è la sua capacità di pensare e di rinnovarsi a seguito di pensieri importanti. Si è sempre detto che la differenza qualitativa tra noi e il mondo animale è data dalla capacità esclusivamente umana di pensare e di agire in senso conseguente ai propri pensieri.

Grandi pensieri generano grandi azioni.
Esattamente. Basta osservare la storia che – a detta degli antichi – è maestra di vita.

Hai seguito la campagna elettorale?
Nazionale o baselicese?

Ovviamente baselicese!
In questo sono stato sempre un buon compaesano. Sì, non riesco ad essere indifferente alle vicende del mio paese, al quale mi sento molto legato, pur riconoscendo che il mio ruolo mi debba tenere equidistante dalle differenti compagini.

Cosa ne pensi?
Penso che nel piccolo si riflettano le stesse difficoltà che si riscontrano a livello nazionale. Un paese di provincia, come il nostro, riflette quello che si svolge, come movimento dello spirito, a livello sia italiano, sia europeo.

Puoi essere più preciso?
Parlerei di una grande nostalgia.

In che senso?
Per coloro che girano intorno ai quarant’anni, sussiste il ricordo di una politica che partiva dalle idee e si nutriva di idee. La questione economica veniva affrontata, come è giusto che sia, ma sempre ad un secondo livello di riflessione, come battuta conseguente. Oggi invece tale tendenza sembra invertita. Il tema intorno al quale ruota il discorso è solo ed esclusivamente quello economico. Non parlo di Baselice, ma anche di Baselice. Parlo della politica in genere.

Da cosa si mostra questo che dici?
Oggi la politica ha completamente o quasi abdicato alla funzione di pensiero. Non è più un laboratorio in cui si studia il percorso, la strada, la mèta. Oggi vogliamo soluzioni tecniche, vogliamo sapere come fare per lavorare, per trovare soldi, per fare molti soldi. Tutto si appiattisce a questo livello. Mi è parso di capire, anche ascoltando i comizi elettorali, che il tema principalmente affrontato sia stato circoscritto a quello che alcuni filosofi chiamavano sua maestà il danaro. Non riusciamo ad uscire da questo stagno.

Ma il denaro è necessario. Come fai ad immaginare una politica fatta indipendentemente dal discorso economico?
Non si nega il valore del denaro come risorsa per vivere. La questione è molto più articolata. La potrei semplificare.

In che modo?
Provo con un esempio. Immaginiamo di essere in nave. Tutti nella stessa barca. Immaginiamo di essere fermi, in alto mare. Non abbiamo vento. Come fare? Abbiamo due soluzioni: la prima è quella di rispondere al problema immediato. Dobbiamo intercettare il primo alito di vento e cercare di andare avanti nel modo meno traumatico possibile. Questa prima soluzione mi pare essere la scelta di oggi. Chiediamo ai tecnici di amministrarci e di risolvere problemi immediati; di intercettare il vento e issare una qualche vela. Fateci avere un po’ di soldi per continuare a vivere. Facciamoci furbi, vediamo come muoverci per fare arrivare i contributi e così possiamo andare avanti.

La seconda soluzione?
La seconda soluzione è quella di capire dove si debba andare. Il fine di tutto il viaggio. Quale porto occorre raggiungere. Il buon vecchio Seneca diceva: nessun porto per quella nave che non sa dove andare. Non possiamo seguire il primo vento possibile, poi questo smette di soffiare e ne seguiamo un altro, e così via… fino al punto di accorgerci che vaghiamo senza sapere dove approdare; che forse stiamo girando su noi stessi. A livello politico mi pare che la questione che pone la differenza sia la seguente: rispondiamo alle emergenze o forse non sappiamo dove andare? Dove stiamo andando? Quale progetto di vita vogliamo dare alle nostre comunità?

Sì, ma fin quando aspettiamo di capire dove vogliamo andare, non è che moriamo di fame?
Si muore lo stesso. Si muore lo stesso quando si fanno tante cose senza sapere il perché.Pensi che i nostri paesi stiano andando verso la crescita?

Meglio l’uovo oggi o la gallina domani?
Sì, fuor di metafora mi sembra che oggi il dramma sia rappresentato da questa fatica di scorgere la mèta e intanto ci si azzuffa per le soluzioni a stretto termine. Abbiamo sentito discorsi su contributi, appalti, soldi da far arrivare, rilanciare il turismo, etc. Tutte cose valide, tutte importanti – indubbiamente –, anche dette bene, con intelligenza (da entrambe le parti), eppure come se mancasse una visione più ampia. Questo è un parere.

La logica economica non basta quindi…
Di per sé, presa come a sé stante, la logica economica che non procede dal ragionamento è pericolosa. Perché la logica economica si fonda sul principio per il quale il pesce grande mangia il pesce piccolo. Sarà sempre così. Il forte diventa sempre più forte e il piccolo sempre più piccolo, fino ad essere quest’ultimo condannato alla morte. A livello internazionale si vede come alcuni stati siano di fatto impotenti rispetto ai giganti di Amazon, Apple, Google. Grandi aziende rendono impraticabile l’amministrazione libera della cosa pubblica. Quando un’azienda ha il potere di determinare la vita pubblica, allora è il ritorno della miseria. In questi ultimi mesi abbiamo ascoltato spesso il discorso su “rapporto costi benefici”. Un’opera si fa se il rapporto costi benefici risulta essere positivo. Se questo è vero, è la morte delle nostre piccole comunità dell’Appennino.

Perché?
Perché qualsiasi opera pensata per noi piccoli paesi, non servirà mai questa logica. Pensiamo alla Fortorina. I paesi del Fortore, tutti insieme, possono essere messi in due palazzi di Bagnoli. Uno stato che voglia muoversi in base alla logica dei costi benefici, non dovrà mai darci nulla. Non si può fare un investimento per il Fortore perché il ritorno economico di quell’investimento non compenserà mai la spesa di partenza. Lo Stato non può spendere milioni di euro per una strada che deve servire poche decine di migliaia di persone. Ripeto, tutti noi –in quanto paesi fortorini – entriamo in due palazzi di Napoli. La logica costi benefici può rivelarsi per noi una trappola mortale.

E allora? Come pensare?
Lo Stato deve guadare al cittadino prima di guardare alle risorse. Un cittadino è soggetto degli stessi diritti di qualsiasi altro cittadino, anche se questo in termini economici dovrebbe significare una perdita. Un cittadino del Fortore che deve recarsi in ospedale non può essere penalizzato dallo Stato che dice di non poter costruire una strada – degna di tale nome –, perché questa non rende in termini economici. Questo è mostruoso. Lo stato deve prendersi cura di ogni cittadino. Poi si ragiona su come, dove, quando trovare le risorse. Prima i principi, poi le scelte concrete in grado di rendere quei principi praticabili.

Capisco…
Il beneficio da raggiungere non è il guadagno per le casse dello Stato. Il beneficio è servire il cittadino, dare a lui delle possibilità di vita che tengano conto del suo essere persona. Se passa la logica aziendale che divide ogni attività umana in guadagni e in perdite, è la fine del consorzio civile, è la fine della vita sociale. La fine delle nostre comunità.

Occorre ritornare alla politica come pensiero…
Sì, per forza. La via d’uscita dalla crisi è la forza della mente. Lo stare nei problemi con intelligenza, non con la calcolatrice.

Da dove partire?
Potrebbe essere un discorso viziato di ideologia ma occorre credervi: partire dalla scuola, dalla formazione. Abbiamo bisogno di leaders che diano la loro vita per la cosa pubblica, non di furbastri che pensino solo a se stessi. Penso a De Gasperi, a La Pira… Dovremmo lottare per non far perdere alle nuove generazioni una sola ora di lezione. Per educarli alla lettura. Per aiutarli a ragionare e a giudicare. Dovremmo arrabbiarci quando i nostri figli passano ore ed ore ipnotizzati dinanzi ai tablet, alla televisione, ai social. Vivo in seminario. Accompagno alcuni ragazzi delle superiori. Quest’anno ho contato tantissime assenze, per svariati motivi. Scherzando dico loro che non hanno fatto dieci giorni di scuola di seguito. Naturalmente si tratta di una esagerazione. Ma un popolo ignorante fa gran comodo ai poteri forti. Non è accettabile questa cosa.

Sei un appassionato lettore. Ci suggerisci un testo attinente al tema?
John Steinbeck, Furore. Il titolo originale è The Grapes of Wrath. Il romanzo fu scritto qualche anno dopo la crisi americana del ’29 e pubblicato nel ’39. Lo trovo di grande attualità. Viene espressa la metafora di cosa può fare l’uomo in condizioni difficili. La scena finale è potentissima, davvero notevole.

Non vuoi dirmi per chi hai votato?
Sono un sacerdote. Preferisco confessare, confessarmi ma non farmi confessare. C’è qualcosa che vale più del voto e mi pare di averlo fatto capire.

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