di Francesca Iannella*
Quando svolgevo il mio tirocinio
presso la Cooperativa Sociale Dedalus di Napoli, Ousseynou, un ragazzo di 16
anni partito completamente solo dal Mali, compiendo per mesi un viaggio
orribile e doloroso, durante una lezione di italiano un giorno mi disse:
Qui in Europa non è il paradiso come lo crediamo noi, è il contrario l’inferno per noi stranieri. Poi mi sono accorto che la gente ha paura di me, non so perché. Oppure che se entro in un treno non si siedono vicino a me perché sono nero forse. Ma io non mi arrabbio, non è colpa loro. I napoletani mai usciti da Napoli non conoscono certe cose. E poi non sanno la mia storia, le mie sorelline che ho lasciato perché voglio lavorare per far studiare loro, il viaggio bruttissimo dove pensavo di morire, perciò dicono queste cose. Ma i napoletaninon sono cattivi con noi se poi ci conoscono.
Ogni volta che leggo e ascolto parole contro i migranti ripenso a quello
che mi ha detto Ousseynou ed è sulla base delle sue parole che voglio credere
che le frasi dette siano dovute semplicemente alla disinformazione o alla
cosiddetta “paura del diverso” e non a mere questioni di razzismo e di
egoismo.
Voglio credere che tutti i
commenti e le chiacchiere siano dovuti alla strumentalizzazione delle notizie,
alle bufale che circolano sul fenomeno migratorio, ai populismi di chi cerca il
consenso elettorale soffiando sulle difficoltà dei cittadini, a chi gioca sulla
“guerra tra poveri” per mantenere intatti il proprio potere e la propria
ricchezza.
Ma soprattutto voglio ancora credere che l’uomo sia capace di provare
empatia e che sia naturale avere slanci di solidarietà senza tornaconti
personali.
Non capisco come si possa rimanere indifferenti e ottusi di fronte
alla sofferenza umana e come sia possibile vivere pensando solo e sempre alla
propria vita, “ai fatti nostri” e basta.
Voglio credere che ognuno di noi,
messo di fronte a certe storie e certi occhi, non si risparmierebbe nel dare
una mano e che proverebbe addirittura vergogna per aver pensato o detto certe
cose.
Ed è questa piccola speranza che
mi porta a scrivere queste righe e a provare a fare alcune riflessioni.
Siamo sicuri che ci troviamo di fronte ad un’emergenza e ad
un’invasione?
La maggior parte dei rifugiati è
riversata negli Stati limitrofi al proprio, spesso poveri anch'essi, perché
spera di tornare al più presto a casa o perché sono Paesi culturalmente e/o
linguisticamente più vicini al proprio. La maggior parte dei flussi migratori
africani avviene all’interno del continente stesso, così come in Medio Oriente,
e solo una piccola percentuale è diretta verso l’Europa.
Nel 2016 quasi 490mila profughi
si sono rifugiati in Uganda (Stato africano), così come moltissimi sono i
migranti “economici” che si spostano ogni anno in Sud Africa.
L’Unione europea – con una
popolazione di 500 milioni di abitanti – riceve una piccola parte dei flussi
migratori se consideriamo, per esempio, che nei primi mesi del 2015 il Libano
con 6 milioni di abitanti accoglieva oltre 1,2 milioni di rifugiati; la
Giordania con 8 milioni di abitanti aveva 600mila rifugiati; la Turchia con 80
milioni di abitanti ospitava 1,8 milioni di rifugiati.
Davvero vengono tutti in Italia?
I Paesi che hanno più immigrati e più richieste di asilo sono
l’Inghilterra, la Germania, la Francia…non l’Italia. La maggior parte dei
richiedenti asilo ha come obiettivo i Paesi del Nord Europa come la Svezia e la
Norvegia, dove sanno che il sistema di asilo è migliore e più garantista, e
quasi nessuno ha l’Italia come sua meta. Data la sua posizione geografica, però,
l’Italia finisce per essere una tappa obbligata per coloro che devono
attraversare il Mar Mediterraneo. Gli arrivi, tuttavia, non avvengono solo via
mare e molti raggiungono l’Europa attraverso le frontiere terrestri passando
per altri Stati.
È chiaro che mediaticamente ha molto più impatto l’arrivo così tragico
di persone dal mare e si ha l’impressione di essere “invasi”, ma sono
moltissime le persone che poi proseguono il proprio viaggio e non restano in
Italia. Infatti - nonostante il regolamento di Dublino stabilisce che debba essere
lo Stato di primo approdo ad esaminare la domanda di asilo - se ora l’Europa ha
cominciato a “bacchettarci” è proprio perché l’Italia non sempre ha rispettato
le regole e la sua quota di immigrati, facendo la “furbetta”: invece di
identificare i migranti e includerli quindi nel nostro sistema di accoglienza,
spesso indichiamo alle persone come raggiungere le frontiere e gli Stati a noi
confinanti.
L’Europa non ci ha abbandonato,
come spesso si sente dire, è esattamente il contrario: l’Europa stanzia
moltissime risorse per aiutare il nostro Paese a gestire il fenomeno, ma poi noi
“italiani” finiamo puntualmente per non utilizzarle come dovremmo. Invece di
definire un sistema di accoglienza serio e strutturato, continuiamo ad adottare
politiche emergenziali e improvvisate.
Quindi perché questo caos, questo gridare continuamente all’emergenza?
Forse questa “emergenza” creata e mantenuta serve?
Sì, proprio così. Lo stato di
emergenza lascia il posto all’“eccezione” ed è funzionale a creare una
situazione in cui si può derogare allo stato di diritto, in cui la legge
ordinaria non trova applicazione, in cui le regole possono non essere
rispettate e in cui si dà spazio alla discrezionalità e quindi alla speculazione.
Un’emergenza è qualcosa di
imprevisto, qualcosa che non si può prevedere, ma i flussi migratori sono ormai
da anni regolari e costanti, sono un fenomeno strutturale e ampiamente
prevedibile.
L’arrivo di queste persone non è
più un’emergenza, emergenziali sono i modi con cui vengono affrontati.
Ecco, perché è proprio questo il
punto. Tralasciando il sistema di “prima accoglienza” e non potendo soffermarci
ora sui particolari delle singole procedure, cerchiamo di capire come funziona in Italia il sistema di
“seconda accoglienza” che è quello che ci riguarda anche a livello locale.
Esiste un sistema in cui
l’accoglienza sia dignitosa, rivolta a un numero piccolo di persone e
caratterizzata da percorsi di inclusione personalizzati, da progetti e servizi
che vadano al di là della pura assistenza materiale? Un sistema affidato a
professionisti con competenze specifiche e qualificate? Sì!
Esiste un sistema di accoglienza
in cui l’erogazione dei fondi sia controllata, vincolata e subordinata a rigidi
criteri di selezione? Sì!
Esiste un sistema in cui i
controlli – sui servizi e i percorsi di inclusione e sulle risorse - siano reali e severi e dove tutto deve essere
rendicontato? Sì!
Tale sistema è lo SPRAR
(Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) e per essere
attivato necessita della volontà e della partecipazione degli enti locali. In
questo modo si ha un’accoglienza integrata, diffusa, capillare e il numero
delle persone viene stabilito sulla base del numero degli abitanti.
Vi è un fondo ordinario
specifico, in cui confluiscono anche fondi europei. Una commissione specifica
che valuta le domande e i progetti. Tutto rendicontato. Nessuna invasione, nessuna speculazione.
Cosa succede se l’ente locale non
aderisce alla rete SPRAR? Qual è l’altro sistema di accoglienza previsto?
In questo caso ogni decisione
passa alla Prefettura e si fa affidamento ai CAS (Centri di accoglienza straordinaria), i quali come si può
immaginare dal nome stesso sono dei centri nati per l’insufficienza di posti
nel sistema SPRAR e che in teoria dovevano essere temporanei.
Sono strutture di vario tipo,
individuate sempre dalla Prefettura, e in mancanza di altri centri o
appartamenti, a volte si richiede la disponibilità di posti agli albergatori o
si collocano i migranti in vecchi hotel di zone periferiche.
La loro natura “temporanea” fa sì
che nei CAS si debbano semplicemente soddisfare le “esigenze essenziali”, i
finanziamenti non vanno a progetto ma pro-capite e sono assegnati con un gioco
al ribasso secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
In particolare, la loro
“straordinarietà” spesso non lascia spazio e tempo per i controlli, né sul modo
in cui vengono gestite le risorse né sull’idoneità delle strutture e del resto
dei servizi.
Tutto ciò, come risulta evidente,
a volte apre le porte a nuovi tipi di imprenditori senza scrupoli e senza
coscienza che fanno profitti sulla pelle delle persone.
Dunque, gli SPRAR sono la
regola, i CAS sono l’eccezione. O almeno, così dovrebbe essere. Cosa succede in realtà? Succede
che siamo in Italia e più del 70% delle persone si trova invece nei CAS.
Il destino dei migranti è
affidato un po’ al caso e dipende dal tipo di struttura in cui verrà collocato
e dalla gestione dell’ente che vincerà la gara.
Ora, una domanda sorge spontanea:
stando così le cose, perché gli enti
locali non aderiscono alla rete SPRAR e tutto viene lasciato a logiche
emergenziali e alla Prefettura?
I motivi possono essere molteplici e di varia natura. Ci sono
motivazioni politiche, dettate dalla paura di perdere il consenso elettorale e
popolare dei cittadini contrari all’accoglienza dei migranti e quindi si
preferisce il sistema deresponsabilizzante dei CAS, in modo che nessuno possa
essere accusato di aver avuto un ruolo attivo e anzi si possa affermare di aver
subìto l’arrivo di queste persone.
E ci sono motivazioni economiche,
come per esempio la necessità di cofinanziamento da parte dell’ente locale
(pari solo al 5 %) o anche – come in alcuni casi in Italia è stato rilevato –
dinamiche legate alle questioni di cui ho parlato prima.
In ogni caso, l’accoglienza nei
CAS dovrebbe essere limitata al tempo strettamente necessario al trasferimento
dei richiedenti asilo negli SPRAR o ai tempi burocratici relativi agli esiti
della domanda di asilo. Il periodo di accoglienza previsto negli SPRAR è invece
di sei mesi - dal momento della notifica del riconoscimento della protezione
internazionale o della concessione della protezione umanitaria - con possibile
richiesta di proroga in alcuni casi particolari.
Dopodiché, i migranti escono dal circuito dell’accoglienza e diventano
indipendenti ed autonomi, spesso allontanandosi dai territori in cui erano
stati trasferiti.
Ora, prescindendo dagli aspetti
più tecnici e dalle modalità con cui le persone sono inserite nel sistema di
accoglienza, siamo sicuri che non ce la stiamo prendendo con le persone
sbagliate? Davvero, in cuor vostro, riuscite a provare rabbia per gente che ha
lasciato e perso tutto e che si trova adesso, sola, in balia di uno Stato
straniero che non riesce o non vuole adottare una politica seria in tema di
immigrazione?
Siamo sicuri che l’unico percorso da intraprendere sia quello di
scagliarsi contro altri esseri umani che non hanno nessuna colpa per essere
nate altrove e che hanno semplicemente scelto, con fatica e rischiando la vita,
di lasciare il proprio Paese e la propria famiglia per cercare un futuro che lì
gli viene negato?
Sono la prima ad essere contraria
ad un sistema di (non) accoglienza che fornisce alle persone in maniera
assistenzialistica solo un pasto e un tetto, sono la prima a provare rabbia per
chi usa il fenomeno migratorio come un ulteriore mezzo per fare business e
speculazione.
Sono tantissimi ormai quelli che vedono nella persona migrante solo un
numero su cui fare affari, ma il problema non può essere spostato su chi di
questo sistema ne rappresenta la vittima.
E non si risolve certo la questione facendo “pulizia” di altri esseri
umani (come qualche sciacallo politico non ha avuto vergogna di dire), ma
denunciando chi lucra, migliorando e ampliando il sistema di accoglienza e
usando le risorse a disposizione in maniera trasparente e corretta.
Ci sono tutti gli interessi per
alimentare un odio sociale insensato e ingiustificato che crea un “noi” e un
“loro” e ci fa individuare il “nemico” e la causa dei nostri problemi in chi è
percepito come “esterno”, “diverso”, “straniero”.
Ci forniscono un capro espiatorio per tutti i mali – i migranti - e noi cadiamo vittima di questa trappola e ci scagliamo contro altri esseri umani, senza capire che noi e loro siamo la stessa cosa e che dovremmo stare dalla stessa parte nel combattere battaglie ben diverse.
Ci forniscono un capro espiatorio per tutti i mali – i migranti - e noi cadiamo vittima di questa trappola e ci scagliamo contro altri esseri umani, senza capire che noi e loro siamo la stessa cosa e che dovremmo stare dalla stessa parte nel combattere battaglie ben diverse.
Se i diritti previsti per i cittadini italiani non sono garantiti la
colpa non è dei migranti.
Se le cose “a casa nostra” non funzionano la colpa non è delle persone
che non hanno quei diritti nel proprio Paese e che si spostano proprio per
cercarli, e non miglioreranno di certo se sbattiamo la porta in faccia a
persone cariche di disperazione o semplicemente alla ricerca di una vita
migliore, proprio come chi dal nostro paesino si sposta da “immigrato” altrove.
“Noi” e “loro” siamo dalla stessa
parte, siamo tutti vittime di chi questo mondo lo vuole a disposizione di pochi
e che ogni giorno continua a distruggere.
Così come noi oggi ci chiediamo cosa faceva la gente comune mentre
milioni di persone venivano deportate e uccise nei lager nazi-fascisti e come
sia possibile che tutto ciò sia avvenuto nel silenzio e nell’indifferenza,
anche noi un domani dovremo rendere conto delle nostre azioni o delle nostre
omissioni.
Mi chiedo cosa risponderemo a chi
ci chiederà perché abbiamo lasciato che milioni di essere umani annegassero nel
Mar Mediterraneo, o venissero torturati nelle prigione libiche, violentati nei
deserti africani, martoriati sul filo spinato e i muri delle frontiere
orientali.
E rispetto a chi è sopravvissuto,
a chi ce l’ha fatta e ora è qui, quali saranno state le nostre azioni?
Se e quando queste persone arriveranno abbiamo solo due scelte:
restare umani e prepararci all’accoglienza, pronti soprattutto all’ascolto,
alla conoscenza, all’apertura mentale e al rispetto verso
culture e religioni differenti, scrollandoci di dosso i nostri pregiudizi… o
chiuderci in noi stessi, rimanere preda della paura, cercare modi e pretesti
per avvalorare le nostre idee, scagliarci contro altri esseri umani e pensare,
sulla base di una concezione razzista della società, che in ogni caso “vengo
prima io perché sono italiano”.
Per fortuna, però, il razzismo
non è un’opinione, ma un reato.
Noi non abbiamo alcun merito per essere italiani, siamo nati qui come
potevamo nascere altrove.
Ogni essere umano ha gli stessi
diritti, al di là del pezzo di mondo in cui è nato. E soprattutto ha il diritto
di spostarsi e cercare un futuro altrove se quei diritti che spettano a tutti
per nascita non sono previsti o garantiti.
Se le istituzioni sono colpevoli
di inerzia e inefficienza, spetta ancora una volta a noi agire e dimostrare di
essere diversi. Se di fronte all’accoglienza di esseri umani coloro che
dovrebbero e potrebbero fare qualcosa ne approfittano o restano fermi, in
disparte, vigliacchi e complici, spetta a noi provare a fare qualcosa di
positivo e di bello.
*già tirocinante come operatrice sociale
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