Terzo appuntamento con la rubrica letteraria "Lo scaffale del Fortore" a cura di Il Za.Mo.
GIULIO ANDREOTTI, I diari segreti 1979-1989 (Saggi), a cura di Serena e Stefano Andreotti, Solferino, Milano 2020, pp. 681, euro 19,00.
Quando ho letto il titolo del libro, mi son detto “questa è la volta buona!”. Per conoscere finalmente i fatti riservati e intimi della nostra storia repubblicana. Almeno quelli relativi ad un decennio caldo, quale fu quello degli anni Ottanta. Quante volte si è detto dell’infinita cassaforte di intrighi che conservava Andreotti nella sua mente, tra le sue carte, in quel parlare pacato, controllato, impassibile, distaccato (machiavellico!). Poi ho letto il libro e son rimasto - prima facie - deluso. In questi diari infatti - curati dai figli del Senatore e presentati in anteprima nazionale a Benevento lo scorso 30 agosto - non c’è alcun segreto. Zero. D’altronde, una delle tante celebri frasi di Andreotti era: “Un segreto per essere tale non lo devi confessare nemmeno a te stesso”.
Eppure, la delusione iniziale, inoculata se vogliamo dal titolo fuorviante, la figura (poliedrica, sagace, superlativamente intrigante) del suo protagonista. Ed ecco i motivi per cui questo testo merita una lettura attenta, comoda e - a voler esagerare - meditata. Emerge il ritratto di uno statista, di un politico fine, che pensa, agisce e si muove secondo schemi definiti. La sensazione che si prova alla fine è quella di grande nostalgia tra le mani. Nostalgia di una tipologia precisa di leadership di cui - ad oggi - se ne percepisce l’assenza.
La nazione è diventata una famiglia di figli litigiosi in assenza dei genitori. Un vero leader possiede un diario. È noioso stare lì ogni giorno ad appuntare ciò che ti accade, eppure a distanza di tempo, sei soddisfatto e ripagato per averne scritto uno. Andreotti prendeva nota - a volte in maniera fugace e rapidissima, a volte spendendosi in precise descrizioni e non lesinando spazi - di quello che accadeva nella sua giornata, negli incontri istituzionali, durante i vertici internazionali, nelle dinamiche della politica, non solo quella italiana ma anche e soprattutto quella estera.
Dal diario, risulta un’agenda fittissima e un ritmo di lavoro impressionante. Il suo studio diventava il crocevia di una diplomazia discreta eppure efficace. La maggior parte della politica estera, che guardava ad Oriente o che si interessava al continente africano, passava quasi interamente dianzi al suo secretaire: ambasciatori, rappresentanti, mediatori, tessitori di tele e di accordi, imprenditori. L’appuntamento era da lui, anche ad orari insoliti. La capacità di mediare, di parlare con tutti, di non figurarsi nemici immaginari e di non agire per risentimento, forse sono le energie segrete del senatore.
Le attitudini di chi vuole impiegarsi attivamente nell’agone politico. Il 07-08 settembre 1983, punta nel suo diario un’affermazione di Kennedy: “Non dobbiamo negoziare per paura, ma non dobbiamo mai aver paura di negoziare” (p. 336). Oppure - siamo al 30-31 luglio 1984 - “per parlare occorre sapere se si vuole cercare di comprendersi” (p. 394). Accanto a questa vocazione pura alla mediazione, c’è da meravigliarsi di fronte all’uso prudente delle parole. Mai affermazioni sproporzionate. Mai esternazioni sopra le righe. Mai una risposta segnata da permalosità o da desiderio di rivalsa. Al politico deve e non può non appartenere l’eleganza della parola.
È questo ciò che lo rende elevato e forse autorevole. Su questo aspetto i diari andereottiani segnano un abisso profondo tra quel modo di relazionarsi di allora e quello di oggi dove si alza banalmente la voce, si protesta per tutto, si fa gara a chi urla di più (o a chi la spara più grossa). In occasione di un incontro all’abbazia benedettina di Royaumont, in Vald’Oise, Andreotti si concentra su una frase pronunciata da dom Antoine Forgeot, abate di Fontgombault: “Animus in audiendo benignus, in consulendo sollicitus”.
Infine, l’ironia. I diari offrono anche l’occasione - qua e là - per una sana risata, grazie alle battute argute. Al 25 maggio 1980 si legge: “Accusare Francesco Cossiga di favoreggiamento del terrorismo sarebbe come insinuare che don Luigi Sturzo trafficasse in droga o si accompagnasse con le lucciole di lusso che, nella notte, custodiscono gli alberi di via Veneto” (p. 107). Oppure al 23 marzo 1981: “‘Trovo incredibile che, fatto un governo, il giorno dopo ci si scervelli alla ricerca di come dovrebbe essere fatto un altro’. Vorrei suggerire a Forlani di stampare questa saggia frase nei cartoncini natalizi di Palazzo Chigi per il 1981 e seguenti” (p. 184). Una delle più pungenti sembra questa. Siamo al giorno 11 febbraio 1985: “[…] Craxi non farà la crisi prima del congresso e… anzi dopo il Comitato centrale partirà per venti giorni per il Medio Oriente. Evangelsiti ha detto a Piccoli che Al Capone era sempre lontano da dove scoppiavano le bombe” (p. 246).
Oppure quando l’ENI dichiara di aver avuto perdite nel 1981 pari a 1.500 miliardi: “Penso che Enrico Mattei, se dall’altro mondo ci si può muovere, stia per riprendere l’attività partigiana” (17 maggio 1982, p. 263). Le seguenti sono poche battute di un testo che supera le seicento pagine e che merita l’interesse di lettori attenti alla recente storia della nostra Italia. Il volume ha dei limiti: si poteva inserire un indice dei nomi citati, per favorirne la consultazione, come anche si poteva dedicare un’attenzione maggiore alla contestualizzazione di alcune pagine, per non rischiare di smarrirsi.
Ho scoperto che due delle più note frasi di Andreotti, in realtà non sono sue. La prima: “A pensar male si fa peccato ma si indovina sempre”, il Senatore l’ha presa dal cardinale Marchetti Selvaggini (p. 374), che era solito appoggiarsi a questo motto di spirito. E anche la celeberrima: “Il potere logora chi non ce l’ha”, in realtà è di Calamandrei (p. 240). Quest’ultima invece è sua, biografica: “Non mi sento un uomo eccezionale, ma non mi sono mai accorto di vivere in un mondo di giganti”.
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