Quando si pensa ai modelli del buon vivere e dell’abitare, la città puntualmente cede il posto alla campagna e, immancabilmente, si celebrano i Borghi, quelli con la B maiuscola, borghi medievali e rinascimentali, costruiti tra mura fortificate, con all’interno musei, palazzi storici e finanche le terme.
Borghi incantevoli che appaiono come modelli di benessere e rifugio ideale in cui si immagina di trasferirsi e andare a vivere, perdendo di vista che i circa ottomila comuni italiani, in molti casi, sono ben altro.
Una rappresentazione rispettosa della realtà vorrebbe infatti che si mettesse da parte una certa cultura estetizzante e si parlasse non solo dei borghi illustri ma anche di quelli minori o, meglio, dei paesi, quelli anonimi e isolati, ubicati nella, maggioranza dei casi, nelle aree interne meridionali, separati da strade fisiche e digitali e mai celebrati nei festival della “grande bellezza”.
Paesi, come quelli del Fortore, che lottano per rimanere vivi ai processi generali di spopolamento, per l’assenza di lavoro, le poche nascite e le troppe partenze, per l’invecchiamento demografico e perché mai parte di un progetto comune ma, comunque ricchi di storia, che non si studia a scuola, di tradizioni e relazioni sociali ravvicinate, di bellezze paesaggistiche e di sapere antico. Paesi abitati da persone che qui hanno scelto di vivere e di realizzarsi e che per troppo tempo hanno sperato in uno sviluppo che non c’è stato, ma oggi paesi vivi e non ancora spopolati, come si spera e si vorrebbe far credere da più parti per motivi non certamente nobili e a cui, per favorire un cammino di ripresa, non bastano attenzioni interessate e testimonianze di circostanza, ma servono atti concreti.
Da parte della politica che dovrebbe prendere consapevolezza che i paesi interni, seppur piccoli e isolati, anche in una visione prospettica, rappresentano una ricchezza, e non un peso, in base a insensate e volgari logiche ragionieristiche, per cui non dovrebbe stare al loro capezzale e ritardarne la fine limitandosi a erogare pochi spiccioli che spettano per legge e contribuiscono a far crescere, in chi è rimasto, sfiducia e percezione di isolamento. Sentimenti, che oggi sono causa di abbandono e domani, quando a viverci ci saranno ancor meno persone, il pretesto per convertire questi territori in feudi da trasferire a buon mercato ad improbabili mecenati di turno.
Di conseguenza, i paesi hanno bisogno di interventi legislativi che non eludano la questione dei diritti ma, di là da qualsivoglia parametro demografico ed economico, assicurino sempre e comunque i servizi fondamentali, non negoziabili e costituzionalmente garantiti, quali la salute, l’istruzione, il lavoro, i trasporti e oggi anche le connessioni digitali, la cui presenza genera fiducia e sicurezza, che sono le condizioni perché vengano abitati per tutto l’anno, mentre la loro mancanza origina paura e smarrimento che, se da una parte dovrebbe catapultare gli amministratori locali e gli abitanti nei palazzi della politica a reclamare con forza ciò che spetta di diritto, dall’altra limitano il benessere e il campo delle opportunità che, anche in questo caso, spingono le persone a cercare altrove una vita migliore, quandanche studi recenti dimostrino la loro voglia di restare.
Eppure, nonostante l'evidenza sia sotto gli occhi di tutti, c’è una grande cecità e da più parti si guarda a questi luoghi da strane angolazioni, parlando del più e del meno in una narrazione fatta di luoghi comuni, che ha poca consapevolezza del presente e nessuna visione di futuro, persuasi, forse, che a niente ormai si possa più rimediare o, al contrario, che si possa riparare alle mancanze con soluzioni estemporanee e di poco conto o, ancora peggio, con l’arrivo del deus ex machina, rischiando di apparire inadeguati rispetto ai ruoli che si rivestono e alle necessità del territorio.
Non etica della prossimità ma erudizione e immaginazione, fortificate dall’impegno, dalla meraviglia e dalla ricerca del bello, dovrebbero essere i requisiti fondamentali di chi, in ogni campo, abbia responsabilità di pianificazione e di governo, perchè diversamente, in assenza di una efficace azione politica e senza alcuna progettualità territorializzata, il Fortore rischia di essere consegnato a piene mani alle dinamiche di un mercato fondato su rapporti disuguali, rischiando realmente di spopolarsi, perdere il senso di comunità per poi, infine, divenire un “non luogo”.
Perché questo non accada e rendere finanche desiderabile l’opportunità di abitarlo, oltre alla salvaguardia del patrimonio e al mantenimento dei servizi, obiettivi (sulla carta) oggi più facilmente raggiungibili con la maggiore capacità di spesa prevista dal PNRR e dalla SNAI, è necessario dar vita a nuove storie che guardino al futuro preservando la memoria, per rileggere in una luce nuova la tradizione, la cultura e l’economia di questi luoghi.
“Lavoro e benessere” rappresentano a tal proposito il binomio da cui bisogna partire se si vuole provare a ripopolarli, soprattutto di giovani che decidano di abitarli, per sempre o per un tempo incerto non ha importanza, lasciando nel contempo spalancate le porte a nuove dimore, in uno scambio continuo tra il locale e il globale. Non più solo partenze, quindi, ma anche possibili arrivi, consapevoli, però, che il desiderio di restare e anche di arrivare in questi territori, deve essere necessariamente supportato da prospettive concrete: si resta e ci si trasferisce in un luogo se in quel luogo ci si riconosce e si ha la possibilità di usufruire dei servizi fondamentali e trovare un lavoro che dia sicurezza economica e benessere sociale.
Paesi accoglienti e in rete tra di loro per condividere le esperienze, un lavoro sicuro ed equamente remunerato, con in più la possibilità di vivere nei luoghi dove si è nati e cresciuti, sono aspetti che migliorerebbero le aspettative di molti, cosicché decidere di vivere nel Fortore, a Milano o a Parigi non si tradurrebbe in un allontanamento forzato o in una residenza obbligata, ma in una scelta di vita libera e identitaria.
Purtroppo non c’è una ricetta pronta, non un modello economico da mettere in campo ma, similmente, non esiste un destino ostile e poi, la storia e la vita insegnano che anche nelle situazioni apparentemente irrimediabili, c’è sempre una carta da poter giocare.
Sarebbe allora doveroso ed auspicabile che gli amministratori locali, gli imprenditori e gli abitanti, non restassero spettatori ancora per molto tempo, ma contro ogni luogo comune, si facessero gruppo “rivoluzionario” deciso a riprendersi i propri paesi trovando forza e fiducia anche in chi è dovuto andar via ma continua a tornare e in chi ha deciso di restare o vorrebbe venire.
Gruppo pronto a sostenere le aziende esistenti e capace di realizzare progetti imprenditoriali che facciano leva sulla vocazione del territorio e sulle sue risorse ma, innanzitutto, progetti che siano CONDIVISI E PARTECIPATI dalle aziende locali, dagli abitanti e dai nativi, che in tal modo ne diverrebbero proprietari ma anche lavoratori e amministratori.
Progetti con un impatto sociale immediato e facilmente replicabili, la cui attuazione e il molto probabile successo non ostenterebbe nulla di eccezionale ma rappresenterebbe sicuramente un evidente fattore di cambiamento anche dal punto di vista psicologico, rivelandosi l’uovo di Colombo nella risposta alle richieste di lavoro e sicurezza economica che non trovano facile cittadinanza nelle poche aziende del Fortore.
Bisogna parlarne prima che si perda la fiducia e la componente demografica possa vanificare ogni proposito, anche perché non bisogna essere indovini per capire che il vento sta cambiando e il Fortore, isolato ma ricco di risorse, potrebbe essere nuovamente “attenzionato” per possibili e legittimi interessi d’impresa in una logica di scambio ineguale. Se così fosse, sarebbe grave e inaccettabile perché a prendersi i paesi sarebbero altri, che con abilità, scaltrezza e conosciuta capacità di convincimento, potrebbero anche servirsi degli abitanti come involontari cavalli di Troia.
*docente economia aziendale
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