lunedì 4 marzo 2024

Baselice, così ci si fidanzava e sposava negli anni '40 e '50 del secolo scorso

di Angelo Iampietro 

Ogni comunità locale ha i suoi usi, costumi, tradizioni, comportamenti, ai quali aggiungo anche la prima fonte di comunicazione che è, per i più, il dialetto, che lo identifica.  È una lingua vera e propria, spontanea ed efficace, direi naturale, che le varie comunità utilizzano. Il dialetto basélicese si differenzia da quello dei paesi viciniori e confinanti non solo nella dizione, ma anche, talvolta, nella nominalizzazione del lessico. Esso determina e circoscrive il piccolo mondo in cui si è vissuti, elemento questo, per lo più di isolamento fino alle soglie degli anni ‘50. La lingua italiana per la nostra comunità, come per tutte le altre, rappresentava e rappresenta la seconda lingua.

La diversità dei dialetti poneva, non di rado, anche comportamenti, usi, costumi, tradizioni diversificate tra paesi limitrofi. In questo contesto voglio raccontare ciò che è indicato nel titolo fino alle soglie degli anni ’50 del secolo scorso.

Quali erano i percorsi, secondo gli usi locali, che portavano al fidanzamento?
Ebbene, se si considerano le modalità per come si conoscono e si frequentano i giovani, a partire dagli anni ’60 – 70, si è interamente all’opposto di quelle di un tempo. Per questi ultimi la libertà di scegliere e di agire rientra nella completa loro autonomia. Nel passato non era così.

Le famiglie, a cui i giovanotti e le signorine appartenevano, avevano una grande influenza decisionale sulla scelta del futuro genero e della futura nuora. Le ragazze uscivano poco da casa, perché costrette, se non per lavoro o per qualche incombenza familiare. I giovanotti godevano di più libertà: bighellonare, uscire, passeggiare, fare vita sociale (si direbbe oggi), incontrare gli amici durante il tempo cosiddetto libero. Pertanto, costoro, così agendo, potevano adocchiare qualche signorinella; la osservano quando usciva dalla chiesa, sostando davanti al sagrato o quando l’interessata, con il tino (contenitore di rame a forma di anfora a due manici e con una strozzatura verso la bocca) con cui andava ad attingere l’acqua alla fontana pubblica. Si portava sul capo, appoggiato sul cercine

A quei tempi erano pochissime le famiglie che fruivano di tale servizio!
Il giovanotto, fatta la scelta della giovane, spesso anche sollecitato dalla famiglia, una donna, che conosceva entrambe le famiglie (la comare) portava “l’ambasciata”; essa consisteva nella proposta di fidanzamento da parte di… alla famiglia della ragazza. I suoi genitori riflettevano sulla proposta e poi decidevano insieme alla figlia la risposta da dare. Se veniva accolta, le famiglie s’incontravano e veniva fatto il fidanzamento “la strignetùre”; in quel contesto veniva regalato alla ragazza l’anello di fidanzamento. 

Per rendere la serata gioiosa venivano preparati dei dolci fatti in casa (“pastorelle”, “scartellate”, panzerotti, biscotti all’uovo e dolci). La famiglia del richiedente la mano della ragazza si presentava a casa di lei “cu lu ciste” colmo di dolci del tempo; anche l’altra aveva preparato le golosità, dicendo tra loro: - “Quanne vènne chidde, nonnéma fa na brutta figure!”.

La serata terminava in allegria, sempre accompagnata da un buon bicchiere di vino.  Da quel giorno il giovane poteva recarsi a casa della ragazza. La sua presenza era sempre vigilata da qualche membro della famiglia. Ci si recava a casa in giorni settimanali stabiliti, per lo più, il giovedì ed il sabato. Non era consentito che i fidanzati andassero a passeggio o ad una cerimonia da soli. È da notare che il giovanotto, quando si recava a casa della fidanzata, curava anche la sua persona con un vestiario più curato, con la barba ben rasata e con le scarpe della festa.  Se non c’erano state incomprensioni insuperabili, le famiglie decidevano il periodo e la data dello sposalizio.

Qualche mese prima del matrimonio veniva fatta la promessa di matrimonio. I futuri sposi, accompagnati dai parenti più prossimi, si recavano al Municipio, dove manifestavano il loro assenso davanti al funzionario incaricato per tale atto. Seguiva, poi, a casa della nubenda, il pranzo con la partecipazione dei parenti più stretti: zii, cugini, talvolta anche numerosi.

Circa una settimana prima del matrimonio, il corredo della nubenda veniva esposto alla visione dei parenti, del vicinato e di qualche curiosa; dopo qualche giorno (si purtàvene li panne) esso, ben sistemato in tanti cesti, veniva trasportato e collocato nella dimora dei futuri sposi. Il suo trasporto richiamava l’attenzione degli astanti lungo le vie, perché tante donne, in fila indiana, col cesto in testa colmo di biancheria, sfilavano per la strada, portando la preziosa dote. Con la famiglia patriarcale, spesso, la dimora degli sposi era quella dei genitori del giovane. In tale contesto si preparava solo la stanza da letto con l’arredo del comò o della cassa e dell’armadio, quando sussistevano adeguate condizioni economiche.

Nel caso opposto “se mettévene da sùle”; lo sposo preparava l’abitazione arredandola con un tavolo da cucina, una cristalliera, delle sedie, qualche mobiletto e “lu scudeddàre” dove si ponevano i piatti e stoviglie. La nubenda arredava la stanza da letto.

Il giorno del matrimonio tutti i parenti e gli amici, invitati precedentemente di persona nelle loro dimore dai rispettivi genitori dei futuri sposi, all’ora stabilita si recavano a casa della sposa; lì venivano distribuiti i dolci (li cumplemènte: pastarèlle) accompagnati da bicchierini colmi di rosolio, prima che la sposa, vestita di bianco, uscisse di casa. Poi, in corteo, seguendo gli sposi, a coppie, sottobraccio uomo e donna, si giungeva in chiesa, dove si celebrava il matrimonio.

Terminata la cerimonia religiosa, si riformava il corteo per recarsi nei locali dove era stato preparato il pranzo. Mancavano locali idonei allo scopo e ci si arrangiava in stanze, dove, sistemati tavoli e sedie, veniva servito il pranzo. Esso veniva preparato da “cuochi locali”; ne menziono due: il signor Cece e il signor Antonio Lepore (Serenella).  Essi preparavano il ragù con carne di agnello e il “soffritto” (per i basélicesi una vera specialità), accompagnato sempre da un buon bicchiere di vini rosso.

E’ opportuno richiamare l’attenzione del lettore che le pietanze non venivano servite in singoli piatti per ogni persona, ma si ponevano al centro della tavolata piatti grandi “li vacelotte” contenenti cibo per quattro persone. Anche il vino veniva bevuto da grosse anfore “l’ammele” dalla capacità di un litro, che il coppiere provvedeva a riempire.

In tempi remoti, al primo piatto di pasta asciutta seguiva la pietanza del baccalà, che sostituiva quella della carne per i meno abbienti; ciò fa ben comprendere quale fosse l’economia di quei tempi!

A sera, in una locale più ampio, in un angolo, si posizionavano uno o più suonatori che allietavano la serata al suono della fisarmonica o dell’organetto, dando inizio alle danze. La tarantella era quella per eccellenza.

Prima della mezzanotte, gli invitati tutti, dopo aver salutato gli sposi, andavano via. Gli sposi, nella prima settimana di nozze, non avendo potuto fare il “viaggio di nozze” (possibilità molto remota!), anche perché l’economia non lo consentiva, ricevevano delle visite ed erano in buona compagnia; anche le pietanze non erano le solite!

La domenica successiva al matrimonio, i novelli sposi, ben vestiti, (perché sottoposti a giudizio), uscivano da casa per recarsi in chiesa per ascoltare la santa messa. Di ritorno si consumava il pranzo con la presenza delle due famiglie. Il lunedì, finito ogni festeggiamento, anche gli sposi tornavano al loro fare quotidiano: il duro lavoro, che li accompagnerà per tutta la vita.

  

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