di Igino Casillo
Quando si pensa ai modelli del buon vivere e dell’abitare,
la città puntualmente cede il posto alla campagna e, immancabilmente, si
celebrano i Borghi, quelli con la B maiuscola, borghi medievali e
rinascimentali, costruiti tra mura fortificate, con all’interno musei, palazzi
storici e finanche le terme. Borghi incantevoli che appaiono come modelli di
benessere e rifugio ideale in cui si immagina di trasferirsi e andare a vivere,
perdendo di vista che i circa ottomila comuni italiani, in molti casi, sono ben
altro.
Una rappresentazione rispettosa della realtà vorrebbe infatti che si mettesse da parte una certa cultura estetizzante e si parlasse non solo dei borghi illustri ma anche di quelli minori o, meglio, dei paesi, quelli anonimi e isolati, ubicati nella, maggioranza dei casi, nelle aree interne meridionali, separati da strade fisiche e digitali e mai celebrati nei festival della “grande bellezza”.
Paesi, come quelli del Fortore, che lottano per rimanere
vivi ai processi generali di spopolamento, per l’assenza di lavoro, le poche
nascite e le troppe partenze, per l’invecchiamento demografico e perché mai
parte di un progetto comune ma, comunque ricchi di storia, che non si studia a
scuola, di tradizioni e relazioni sociali ravvicinate, di bellezze
paesaggistiche e di sapere antico. Paesi abitati da persone che qui hanno
scelto di vivere e di realizzarsi e che per troppo tempo hanno sperato in uno sviluppo
che non c’è stato, ma oggi paesi vivi e non ancora spopolati, come si spera e
si vorrebbe far credere da più parti per motivi non certamente nobili e a cui,
per favorire un cammino di ripresa, non bastano attenzioni interessate e
testimonianze di circostanza, ma servono atti concreti.
Da parte della politica che dovrebbe prendere consapevolezza
che i paesi interni, seppur piccoli e isolati, anche in una visione
prospettica, rappresentano una ricchezza, e non un peso, in base a insensate e
volgari logiche ragionieristiche, per cui non dovrebbe stare al loro capezzale
e ritardarne la fine limitandosi a erogare pochi spiccioli che spettano per
legge e contribuiscono a far crescere, in chi è rimasto, sfiducia e percezione
di isolamento. Sentimenti, che oggi sono causa di abbandono e domani, quando a
viverci ci saranno ancor meno persone, il pretesto per convertire questi
territori in feudi da trasferire a buon mercato ad improbabili mecenati di
turno.
Di conseguenza, i paesi hanno bisogno di interventi
legislativi che non eludano la questione dei diritti ma, di là da qualsivoglia
parametro demografico ed economico, assicurino sempre e comunque i servizi
fondamentali, non negoziabili e costituzionalmente garantiti, quali la salute,
l’istruzione, il lavoro, i trasporti e oggi anche le connessioni digitali, la
cui presenza genera fiducia e sicurezza, che sono le condizioni perché vengano
abitati per tutto l’anno, mentre la loro mancanza origina paura e smarrimento
che, se da una parte dovrebbe catapultare gli amministratori locali e gli
abitanti nei palazzi della politica a reclamare con forza ciò che spetta di
diritto, dall’altra limitano il benessere e il campo delle opportunità che,
anche in questo caso, spingono le persone a cercare altrove una vita migliore,
quandanche studi recenti dimostrino la loro voglia di restare.
Eppure, nonostante l'evidenza sia sotto gli occhi di tutti,
c’è una grande cecità e da più parti si guarda a questi luoghi da strane
angolazioni, parlando del più e del meno in una narrazione fatta di luoghi
comuni, che ha poca consapevolezza del presente e nessuna visione di futuro,
persuasi, forse, che a niente ormai si possa più rimediare o, al contrario, che
si possa riparare alle mancanze con soluzioni estemporanee e di poco conto o,
ancora peggio, con l’arrivo del deus ex machina, rischiando di apparire
inadeguati rispetto ai ruoli che si rivestono e alle necessità del territorio.
Non etica della prossimità ma erudizione e immaginazione,
fortificate dall’impegno, dalla meraviglia e dalla ricerca del bello,
dovrebbero essere i requisiti fondamentali di chi, in ogni campo, abbia
responsabilità di pianificazione e di governo, perché diversamente, in assenza
di una efficace azione politica e senza alcuna progettualità territorializzata,
il Fortore rischia di essere consegnato a piene mani alle dinamiche di un
mercato fondato su rapporti disuguali, rischiando realmente di spopolarsi,
perdere il senso di comunità per poi, infine, divenire un “non luogo”.
Perché questo non accada e rendere finanche desiderabile
l’opportunità di abitarlo, oltre alla salvaguardia del patrimonio e al
mantenimento dei servizi, obiettivi (sulla carta) oggi più facilmente
raggiungibili con la maggiore capacità di spesa prevista dal PNRR e dalla SNAI,
è necessario dar vita a nuove storie che guardino al futuro preservando la
memoria, per rileggere in una luce nuova la tradizione, la cultura e l’economia
di questi luoghi.
“Lavoro e benessere”
rappresentano a tal proposito il binomio da cui bisogna partire se si vuole
provare a ripopolarli, soprattutto di giovani che decidano di abitarli, per
sempre o per un tempo incerto non ha importanza, lasciando nel contempo
spalancate le porte a nuove dimore, in uno scambio continuo tra il locale e il
globale. Non più solo partenze, quindi, ma anche possibili arrivi, consapevoli,
però, che il desiderio di restare e anche di arrivare in questi territori, deve
essere necessariamente supportato da prospettive concrete: si resta e ci si
trasferisce in un luogo se in quel luogo ci si riconosce e si ha la possibilità
di usufruire dei servizi fondamentali e trovare un lavoro che dia sicurezza
economica e benessere sociale.
Paesi accoglienti e in rete tra di loro per condividere le
esperienze, un lavoro sicuro ed equamente remunerato, con in più la possibilità
di vivere nei luoghi dove si è nati e cresciuti, sono aspetti che
migliorerebbero le aspettative di molti, cosicché decidere di vivere nel
Fortore, a Milano o a Parigi non si tradurrebbe in un allontanamento forzato o
in una residenza obbligata, ma in una scelta di vita libera e identitaria.
Purtroppo non c’è una ricetta pronta, non un modello
economico da mettere in campo ma, similmente, non esiste un destino ostile e
poi, la storia e la vita insegnano che anche nelle situazioni apparentemente
irrimediabili, c’è sempre una carta da poter giocare.
Sarebbe allora doveroso ed auspicabile che gli
amministratori locali, gli imprenditori e gli abitanti, non restassero
spettatori ancora per molto tempo, ma contro ogni luogo comune, si facessero
gruppo “rivoluzionario” deciso a riprendersi i propri paesi trovando forza e
fiducia anche in chi è dovuto andar via ma continua a tornare e in chi ha
deciso di restare o vorrebbe venire.
Gruppo pronto a sostenere le aziende esistenti e capace di
realizzare progetti imprenditoriali che facciano leva sulla vocazione del
territorio e sulle sue risorse ma, innanzitutto, progetti che siano CONDIVISI E
PARTECIPATI dalle aziende locali, dagli abitanti e dai nativi, che in tal modo
ne diverrebbero proprietari ma anche lavoratori e amministratori.
Progetti con un impatto sociale immediato e facilmente
replicabili, la cui attuazione e il molto probabile successo non ostenterebbe
nulla di eccezionale ma rappresenterebbe sicuramente un evidente fattore di
cambiamento anche dal punto di vista psicologico, rivelandosi l’uovo di Colombo
nella risposta alle richieste di lavoro e sicurezza economica che non trovano
facile cittadinanza nelle poche aziende del Fortore.
Bisogna parlarne prima che si perda la fiducia e la
componente demografica possa vanificare ogni proposito, anche perché non
bisogna essere indovini per capire che il vento sta cambiando e il Fortore,
isolato ma ricco di risorse, potrebbe essere nuovamente “attenzionato” per
possibili e legittimi interessi d’impresa in una logica di scambio ineguale. Se
così fosse, sarebbe grave e inaccettabile perché a prendersi i paesi sarebbero
altri, che con abilità, scaltrezza e conosciuta capacità di convincimento, potrebbero
anche servirsi degli abitanti come involontari cavalli di Troia.
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