lunedì 14 aprile 2025

Il grande brigantaggio tra Puglia, Molise e Campania. Intervista a Antonio Bianco



Postiamo l'intervista fatta all'autore di questo blog da
Bruno del Vecchio* e apparsa sul numero di aprile della rivista Nuovomeridionalismostudi

Il giornalista Antonio Bianco, sannita, laureato in scienze politiche alla Sapienza di Roma, lavora attualmente per Il Messaggero. Da anni studia il fenomeno del brigantaggio, nel più generale contesto dell’Unità d’Italia. Ha già pubblicato negli scorsi anni alcuni lavori in materia e recentemente, edito da Rubbettino nel 2022, il libro “Breve storia del brigantaggio tra Puglia, Molise e Campania (1860-– 1864)”. Incontriamo Antonio Bianco e con lui ripercorriamo brevemente, per NuovoMeridionalismoStudi, il contenuto del suo ultimo lavoro.

Domanda: dottor Bianco, come nasce l’interesse per un fenomeno, come quello del c.d. brigantaggio, oggetto di molti studi, ma sul quale forse non è stata ancora raggiunta una chiarezza storica?

R. L’interesse per il fenomeno nasce dalla passione per la storia e dall’amore per il mio territorio. Ciò che mi ha spinto ad occuparmi di brigantaggio è stato il mio interesse, più in generale, per la questione meridionale, di cui il brigantaggio è solo un aspetto. Non bisogna dimenticare poi che il Fortore, area interna della provincia di Benevento, al confine con Puglia e Molise, è terra di grande brigantaggio; basti pensare che qui operavano le bande prima Francesco Saverio Basile, detto Pilorusso, di Colle Sannita e in seguito quelle del famigerato capobrigante pugliese, Michele Caruso.

D. Chi erano i briganti? Uomini e donne (per qualcuno eroi) che si opposero con le armi ad un’Unità subìta, quanto meno non voluta, o soltanto persone che, approfittando della confusione politica, economica e sociale del momento, furono guidate da interessi personali e, a volte, criminali? Comprendo, ovviamente, che la realtà è sempre più complessa di quello che appare.

R. Il problema è che il brigantaggio è da sempre un tema divisivo. Si sceglie di stare, come accade spesso, da una parte oppure dall’altra. Bisognerebbe invece affrontarlo con maggiore oggettività: esso fu principalmente la reazione delle masse contadine del Sud ad una unificazione che li aveva totalmente esclusi da questo processo storico. Un'Unità, insomma, che fu imposta dall’alto, si direbbe oggi. Di questo se ne lamentò perfino Giuseppe Garibaldi. Se non si va alla radice del problema, non si può capire perché migliaia di uomini e donne meridionali imbracciarono le armi. Il brigantaggio fu in effetti una reazione generalizzata, che coinvolse tutte le regioni del Sud. Negli ultimi anni si è riscoperto il tema del brigantaggio soprattutto grazie agli studiosi di storia locale, i quali, non accontentandosi della verità ufficiale, hanno iniziato a rispolverare i vecchi documenti d’archivio. Purtroppo, dopo la nascita del nuovo regno d’Italia, soprattutto da parte della destra storica, si è cercato di far credere che i briganti, con termine dispregiativo, fossero solo dei criminali. Un modo per chiudere questa pagina di storia nel recinto dell’oblio e della damnatio memoriae, senza però interrogarsi, come dicevo, sulle ragioni economiche e sociali che spinsero migliaia di giovani meridionali a darsi alla macchia. E tra esse individuerei soprattutto la lunghissima leva obbligatoria, che toglieva braccia fondamentali alle famiglie contadine, e la mancata assegnazione delle terre demaniali, che finirono invece nelle mani della nuova borghesia agraria.

D. Lei è di Baselice, un paese dell’alto Sannio, che ha lasciato per motivi professionali (ma so che vi ritorna spesso), come purtroppo molti sono costretti a fare. Un fenomeno, quello dello spopolamento, che colpisce da decenni il Sannio e che, forse, ha proprio le sue motivazioni originali in un’Unità che non è stata attuata, sin dall’inizio, nel migliore dei modi: che ne pensa?

R. A mio avviso la dinamica demografica dell’intero Sannio va inquadrata in quella più generale dell’emigrazione che investe tutt’ora il Mezzogiorno e le cosiddette aree rarefatte. Le cause di questo esodo vanno ricercate soprattutto in due fattori: la mancanza di lavoro e il taglio dei trasferimenti statali alle regioni meridionali. Un mix di fattori che sta trasformando il nostro territorio, e soprattutto le aree interne, in un deserto demografico, spingendo migliaia di giovani a trasferirsi altrove. Non credo che il Pnrr, che era stato concesso proprio per colmare il divario nord-sud, riuscirà a cambiare molto da questo punto di vista.

D. Comprendo che il discorso sarebbe molto lungo e complesso. Vorrei tornare però al brigantaggio e ancora per un momento al suo paese, Baselice. Vi furono anche lì persone che “imbracciarono” il fucile contro i “piemontesi”?

R. In queste zone operava, come ho detto, il famigerato colonnello Michele Caruso di Torremaggiore (Foggia), di cui il baselicese Antonio Secola divenne il suo “luogotenente” e al quale ho dedicato alcuni anni fa una vera e propria monografia. Non solo, diversi furono i miei compaesani di allora che decisero di imbracciare il fucile, come i due fratelli Lisbona, Antonio e Domenico. Fedelissimi del Secola verranno uccisi all’inizio del 1864. Ma allargando il perimetro della guerriglia, si può dire che un po’ in tutti i comuni della Fortore esistevano piccole bande di briganti, come quella di Teodoro Ricciardelli di San Marco dei Cavoti, Leonardo Tulino di Montefalcone in Valfortore e Marco De Masi di Foiano Valfortore.

D. Gli eccidi, in tutto il Fortore (come in molte parti del meridione), vi furono da ambo le parti e lei, con obiettività, lo scrive. Ne vuole ricordare qualcuno?

R. Sì, in effetti, fu uno scontro senza esclusione di colpi. Il primo eccidio è quello, dimenticato fino a qualche anno fa, di Roseto di Valfortore, all’epoca Roseto di Capitanata. Qui, la sera del 7 novembre 1860, cinque persone vennero fucilate dai garibaldini del generale Liborio Romano (omonimo dell’ex ministro dell’Interno del governo borbonico). L’accusa: essere filoborbonici. Il più giovane aveva 21 anni. Sul fronte opposto, qualche anno dopo, il 7 settembre 1863, il famigerato capobrigante Michele Caruso si rese artefice di una orribile carneficina: la strage di Castelvetere in Valfortore. Diciotto contadini, tra cui donne e bambini, vennero massacrati dalla sua banda. Secondo alcuni storici locali, la loro colpa fu quella di aver fatto la spia presso una masseria di Riccia, in provincia di Campobasso. Secondo altri storici invece si trattò invece di uno degli ultimi atti di un capobrigante sanguinario.

D. Nell’agosto del 1863 venne emanata la legge Pica (dal nome del suo promotore, il deputato abruzzese Giuseppe Pica), rimasta in vigore fino al dicembre 1865. Una legge “eccezionale” che, ricordiamolo, mettendo in stato d’assedio le province meridionali, ebbe lo scopo di contrastare in maniera ancora più incisiva il fenomeno del brigantaggio. La legge diede i frutti sperati, ma con un prezzo altissimo, che subirono non solo i briganti…

R. Con la legge Pica si legalizza la legge marziale nel Sud Italia. Anche un semplice contadino sorpreso con una roncola poteva essere passato per le armi. Basti pensare che per andare in campagna bisognava mostrare un lasciapassare, pena l’arresto. Se a questo si aggiunge il domicilio coatto o l’arresto per i familiari del brigante con l’accusa di essere dei manutengoli, si può affermare che la legislazione di guerra alla fine ebbe il suo effetto, ossia la sconfitta delle bande, ma il prezzo pagato dalla popolazione fu altissimo.

D. Lei ha avuto e ha ancora modo di presentare il suo libro in molte occasioni. Anche se sono passati più di centosessant’anni, qual è la reazione delle persone che incontra? C’è solo un interesse storico o qualcosa di più e di diverso?

R. Indubbiamente c’è un forte interesse crescente per il fenomeno del brigantaggio. Le persone che incontro seguono con attenzione le mie presentazioni. Tuttavia, sono donne e uomini che non vogliono essere passivi, ossia solo ascoltare, ma anche partecipare al dibattito. Insomma, vogliono dire la loro sui briganti. E spesso raccontano ciò che gli è stato tramandato dai genitori o dai nonni. La narrazione orale è stata fondamentale nei paesi del Sud per mantenere vivo, nell’immaginario collettivo, le gesta dei briganti. Ultimamente, ad esempio, c’è un forte interesse per il ruolo che ebbero, in questa sorta di rivolta contadina, le cosiddette brigantesse.

*Avvocato, consulente della Fnsi (Federazione nazionale della stampa italiana) 

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