Quello del lavoro mi appare come una tematica insolita
per la teologia. Non credi?
In effetti, è difficile incontrare un punto di vista sul
lavoro che parta da premesse teologiche. Eppure è una questione che è stata nel
centro della riflessione non solo ecclesiale, ma religiosa in senso ampio.
Sembrerà strano, ma la storia della teologia è ricca di opere sul tema, anche
se rispetto ai grandi temi, può sembrare che sia stata - quella sul lavoro -
una riflessione secondaria e marginale.
Come è nata l’idea di questo libro?
Qualche anno fa, la Pontificia Facoltà teologica dell’Italia
Meridionale di Napoli, mi chiese di intervenire in un corso universitario, a
più voci, dal titolo Lavoro, servizio e felicità dell’uomo nella Bibbia. Si
trattava di una serie di lezioni rivolte agli specializzandi in teologia
biblica. Impiegai qualche mese per approntare le dispense e, al termine del
percorso, venne l’idea di una pubblicazione più agile, riformulata rispetto
agli aspetti meramente tecnici e tipicamente scolastici. Il prof Carmine Di
Sante, col quale avevo già collaborato per altre iniziative, mi invitò ad
inserire il testo all’interno di una collana promossa dall’editore Pazzini.
Oggi la chiesa, nel solco della riflessione promossa da papa Francesco, spinge
molto sui temi sociali. Al pontefice si devono espressioni tipo “teologia dal
popolo”, “teologia della città”, eccetera.
Cosa centra l’opera delle mani con la teologia?
Il magistero di Francesco ha a cuore i grandi temi sociali,
questo è un fatto. Non che altri pontefici non abbiano dato spazio a questi
aspetti. Scrivere sul lavoro significa partecipare ad un dibattito serio sul
senso profondo dell’attività umana. La teologia non è distante dalla vita. Non
si occupa delle cose del cielo. La teologia porta il respiro della sacralità in
tutto ciò che è profondamente umano. Il libro si divide in tre parti. Nelle
prime due, la riflessione sul lavoro viene svolta prendendo in considerazione
lo spazio sociologico e quello filosofico, mentre, nella terza parte, si tenta un’itineraria
all’interno di alcune pagine della Scrittura. Le prime due parti sono
funzionali alla terza. Preparano il terreno al dialogo. Un confronto che come
un pendolo oscilla tra l’attualità, da una parte, e la Bibbia, dall’altra. Nel
libro della Genesi, il primo rotolo della Torah, leggiamo due testi narrativi
sulla creazione. Se messi a confronto, sembrano contraddirsi, ma in realtà
offrono un quadro dove i due racconti si arricchiscono l’un l’altro. Ebbene,
fin dall’inizio, fin dal punto originario, quello divino è descritto come un
fare. Il Dio della Bibbia è un dio che opera, che lavora. Nel primo racconto la
creazione avviene attraverso la parola. Adonai parla e tutto si invera. Nel
secondo racconto, l’immagine piega verso qualcosa di maggiormente antropomorfico.
Dio prende dell’argilla e crea l’uomo. Sembra l’opera di un vasaio. Fa scendere
un profondo sonno su Adamo, gli incide il fianco e dalla costola plasma la
donna. Sembra l’opera di un chirurgo, che si premura di addormentare il
paziente per poi scendere nelle profondità della carne. Dopo il primo peccato
delle origini, Dio riveste la coppia originaria, Adamo ed Eva, per ricoprirne
la nudità. Sembra di osservare, anche se rudimentale, l’opera di un sarto.
L’attività umana appartiene alla descrizione di Dio, o meglio, del Dio
creatore.
Ma fin dal catechismo ci è stato insegnato che il lavoro
è la maledizione che cade sull’uomo a causa del peccato originale.
L’opera delle mani ripresenta ad ogni generazione, il dramma
della colpa originaria. Qui occorre sfatare un mito. Se si legge con attenzione
il testo, ad essere maledetto non è l’opera dell’uomo, bensì il suolo. Prima
del peccato la terra dona con generosità i suoi frutti e l’uomo ne accoglie
generosamente l’elargizione. Dopo il peccato il suolo si chiude in una sorta di
avarizia paradigmatica, ragion per cui, occorre arrivare ai frutti quasi
lottando con la terra, affaticandosi. Si deve aggiungere, inoltre, che dopo la
creazione, col riposo del settimo giorno, Dio lascia il creato alle mani dell’uomo.
Per cui, l’opera delle mani si configura come un atto per il quale la creazione
viene continuamente prolungata. Quando si lavora si continua l’opera del
creatore. Il lavoro stesso, da mero esercizio di forze, si configura come un
intervento creativo dell’uomo, dell’intelligenza e della volontà umane, sulla
res extensa, ossia sulla realtà.
Parlare del lavoro, allora, è indirettamente riflettere
anche sui temi dell’ecologia, sulla cura del creato, “la casa comune”, come
dice Francesco.
Esattamente. Nel libro riprendo quella formula potentissima
utilizzata dal papa: “non possiamo illuderci di vivere da sani in un mondo
ammalato”. Se la casa si riempie di fumo, non posso pretendere di respirare
aria pulita. Se il lavoro non è anzitutto cura e rispetto per la terra, per la
natura, per tutto ciò che si trova all’interno del giardino-pianeta, non
possiamo considerarlo “lavoro” nel senso più genuino del termine.
Qual è il pregio del tuo libro?
Un testo non è buono perché offre risposte precise a tutte
le questioni. L’efficacia di un libro, il suo carattere formativo, risiede nel
fatto che apre una discussione, suscita nel cuore del lettore delle piste di
riflessione. Orienta verso un’analisi che è sempre da accogliere in senso
pieno. Il difetto? Probabilmente lo spazio. Forse lo stile risente di una certa
secchezza. Ma, come ripeteva uno dei miei professori: “si dice bene in venti
pagine ciò che si dice male in cinquanta”. Magari questo potrebbe essere solo
l’inizio di una riflessione più ampia.
Grazie, don Leonardo, per questa breve chiacchierata e
congratulazioni per il tuo “lavoro”.
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