venerdì 9 luglio 2021

La mietitura e trebbiatura di una volta

 di Angelo Iampietro

Son passati diversi lustri da quando ciò che sto per raccontare costituiva un momento molto importante, direi fondamentale, tra le attività agricole del nostro territorio. Espongo, stando ai miei ricordi, le fasi della mietitura e della trebbiatura. La mietitura iniziava tra la fine di giugno lungo i terreni degradanti sulla fascia fluviale del Fortòre e del Cervàro e, salendo, poi, in altitudine, fino alle zone montane, protraendosi oltre la metà di luglio.

 

Era un’attività alla quale ci si preparava con largo anticipo. Si controllavano i ferri del mestiere: la falce, il grosso grembiule (la mantère), i cannoli (cannédde), pezzi di canna lavorata nei quali si inserivano tre dita della mano sinistra (mignolo,  anulare e medio) per proteggerle da eventuali tagli con la falce dentata, tenuta nella mano destra L’indice era protetto da un astuccio di cuoio con legacci al polso (lu scarfegnóle; vi era poi  (lu puzètte) la protezione del braccio destro costituito da un manicotto di cuoio che ne cingeva una parte, per evitare la sua irritazione, poiché le spighe recise poggiavano, strofinando su di esso.

 

Con largo anticipo della mietitura, in piazza Umberto, di domenica, sul marciapiede, davanti al palazzo della famiglia Del Vecchio, c’erano ben sistemate, su di un telo, le une accanto alle altre, le falci dentate, fabbricate da due bravissimi artigiani di Foiano Valfortore, i fratelli Mutarelli, esposte per venderle. Erano di diversa grandezza e finemente lavorate, oltretutto resistenti, perché essi conoscevano molto bene la tecnica della tempera del metallo. Ricordo che vicino al manico di legno, sul metallo, c’era il marchio di fabbrica così impresso: *** M *** (la “M” tra due o tre stelline a destra e a sinistra, che stava per Mutarelli). I fratelli Mutarelli realizzavano molti attrezzi agricoli e tra questi, ricostruivano il vomere all’aratro.


La mietitura a mano è durata fino agli anni ’60, in seguito eseguita con piccole falciatrici meccaniche, fino alle attuali mietitrebbiatrici. La coltivazione del frumento era molto diffusa e costituiva anche una discreta fonte di rendita per chi, avendo terreni adatti a tale coltivazione, ne produceva abbastanza; per altri la scorta per la panificazione per l’intero anno.


In quegli anni la manodopera non mancava ed era indispensabile averne a sufficienza, per chi coltivava più appezzamenti di terreno a frumento, avena e orzo. Il mietitore doveva avere resistenza fisica ed essere allenato nel suo lavoro, alquanto duro, sotto un’elevata calura estiva.


C’erano in paese alcuni che andavano per la maggiore ed erano richiesti, per cui ci si prenotava con largo anticipo, per averli a disposizione al momento giusto.  Lo si vedeva di primo mattino, prima del sorgere del sole, con falce e “mantére” sulla spalla, raggiungere la campagna.


C’era bisogno di alimentarsi bene per il duro lavoro; durante la giornata, al mattino si consumava la colazione, costituita da pane, formaggio e salumi, il tutto innaffiato con un buon bicchiere di vino rosso locale; a mezzogiorno si pranzava, per lo più maccheroni, cui seguivano polpette o pezzi di salsiccia al sugo; al vespero si procedeva con la merenda con pane, affettati, formaggio e cipolla; la sera con la cena. Nell’alimentazione non mancavano mai l’insalata di pomodori ed i peperoni fritti.


Anche per le donne la mietitura costituiva una gran faticata, perché bisognava prendere dalle stoppie “li jérmete” (grano mietuto tenuto nella mano sinistra), che, messi insieme e legati, davano origine al covone (manócchie); questi ultimi venivano trasportati e raccolti dove venivano erette le biche “l’acchie”, costituite da 21-22 covoni. Bisognava comporle bene in modo tale che se fosse piovuto, l’acqua non sarebbe dovuta penetrare all’interno di esse, generando muffa.


I “massari” festeggiavano la fine della mietitura con un abbondante e squisito pranzo, costituito da: “cavatelli”, abbondante carne al ragù, buon vino, frutta di stagione ed ogni altro “ben di Dio” (lu càpe canàle); vi partecipavano tutti i mietitori e la giornata di lavoro terminava a mezzogiorno.


Terminata la mietitura, i covoni venivano trasportati sull’aia con asini, muli o con la treggia (tràule), trainata da muli o mucche appaiate. Questi, poi, con grande maestria, venivano assemblati in una grande biga (la pesatúre o lu pignóne) con base rettangolare o rotonda, la cui sommità, a mo’ di tetto, potesse consentire, per pioggia, lo scorrere dell’acqua senza che penetrasse all’interno.

 

Prima dell’impiego della trebbiatrice, tutto il lavoro veniva fatto con una coppia di muli o di mucche, i quali trascinavano una grossa pietra (pesatóre) tra i covoni slegati e sparsi sull’aia per quattro o cinque ore; questa consentiva la tritatura della paglia e la fuoriuscita dalle spighe dei chicchi di grano. Successivamente, con del vento favorevole, si separava la paglia dal grano (se ventelàve lu rane). Vi erano giorni in cui, da una certa ora, per lo più nel primo pomeriggio, il vento non spirava e si era lì ad attendere che spirasse. Non mancava qualche imprecazione!


Era questa un’operazione poco salutare maggiormente per coloro che avevano affezioni polmonari. In seguito, sempre le donne, con crivelli, davano un’ultima pulitura al grano, che, messo in grossi sacchi bianchi, a dorso di muli, veniva trasportato e versato nel granaio.


All’inizio degli anni ’50 ci fu la prima trebbiatrice. Se non ricordo male, fu il dott. Luigi Lorenzelli, medico condotto a Baselice, ad acquistarne una. Essa era costituita da due parti separate: un motore con puleggia, che, tramite cinghie, consentiva agli organi in legno e metallo della trebbiatrice di adempiere allo scopo. Dopo qualche anno esse aumentarono di numero e quel lavoro fatto con la sola forza fisica, con l’ausilio degli animali, scomparve. Per il suo spostamento, da un’aia all’altra, si provvedeva con il traino di muli o mucche e solo più tardi, con trebbiatrici più grandi con il trattore.

 

Faccio notare che a quei tempi c’era molta solidarietà tra i contadini, i quali si aiutavano a vicenda nei lavori dove necessitava più manodopera.


La mietitura e la trebbiatura erano vissuti in allegria ed ad ognuno era affidato un compito ben preciso; durante lo svolgimento di quest’ultima c’era l’addetto allo spostamento della paglia, che, talvolta, le donne, con grandi teli, trasportavano nei pagliai. La paglia, insieme al fieno, costituiva la derrata per muli, asini e mucche; chi al controllo dei sacchi di grano; chi a menare sull’aia i covoni dalla grande biga; chi intento a porgere il covone all’operaio, chiamato “mbuccatóre”, con il compito di introdurli nel battitore della trebbiatrice.


Anche in paese c’erano degli ampi spazi comunali, attualmente urbanizzati con costruzioni, dove avveniva la trebbiatura: S. Pietro, Erbastella, al serbatoio, sopra la Crocella; lì si accumulavano le bighe di coloro i quali non avevano un grosso quantitativo di frumento. Le bighe, ben costruite, le une accanto alle altre, costituivano il simbolo della fatica di un anno intero, per avere nella credenza pane a sufficienza e per fare la pasta di casa.


Ai nostri giorni, tutto il duro lavoro di un tempo si consuma in poche ore con le mietitrebbiatrici livellanti. C’è anche da dire che questa coltivazione nell’agro baselicese si è ridotta enormemente per varie ragioni, non ultima per sconvenienza economica. In quegli anni, la comunità baselicese, per produzione di beni alimentari, era più che autosufficiente.


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