Son passati diversi lustri da quando ciò che sto per raccontare costituiva un momento molto importante, direi fondamentale, tra le attività agricole del nostro territorio. Espongo, stando ai miei ricordi, le fasi della mietitura e della trebbiatura. La mietitura iniziava tra la fine di giugno lungo i terreni degradanti sulla fascia fluviale del Fortòre e del Cervàro e, salendo, poi, in altitudine, fino alle zone montane, protraendosi oltre la metà di luglio.
Era
un’attività alla quale ci si preparava con largo anticipo. Si controllavano i
ferri del mestiere: la falce, il grosso grembiule (la mantère), i cannoli (cannédde),
pezzi di canna lavorata nei quali si inserivano tre dita della mano sinistra (mignolo, anulare e medio) per proteggerle da eventuali
tagli con la falce dentata, tenuta nella mano destra L’indice era protetto da
un astuccio di cuoio con legacci al polso (lu scarfegnóle; vi era poi (lu puzètte) la protezione del braccio destro
costituito da un manicotto di cuoio che ne cingeva una parte, per evitare la
sua irritazione, poiché le spighe recise poggiavano, strofinando su di esso.
Con
largo anticipo della mietitura, in piazza Umberto, di domenica, sul marciapiede,
davanti al palazzo della famiglia Del Vecchio, c’erano ben sistemate, su di un
telo, le une accanto alle altre, le falci dentate, fabbricate da due bravissimi
artigiani di Foiano Valfortore, i fratelli Mutarelli, esposte per venderle.
Erano di diversa grandezza e finemente lavorate, oltretutto resistenti, perché
essi conoscevano molto bene la tecnica della tempera del metallo. Ricordo che
vicino al manico di legno, sul metallo, c’era il marchio di fabbrica così
impresso: *** M *** (la “M” tra due o tre stelline a destra e a sinistra, che
stava per Mutarelli). I fratelli Mutarelli realizzavano molti attrezzi agricoli
e tra questi, ricostruivano il vomere all’aratro.
La mietitura a mano è durata fino agli anni ’60, in seguito eseguita con piccole falciatrici meccaniche, fino alle attuali mietitrebbiatrici. La coltivazione del frumento era molto diffusa e costituiva anche una discreta fonte di rendita per chi, avendo terreni adatti a tale coltivazione, ne produceva abbastanza; per altri la scorta per la panificazione per l’intero anno.
In
quegli anni la manodopera non mancava ed era indispensabile averne a
sufficienza, per chi coltivava più appezzamenti di terreno a frumento, avena e
orzo. Il mietitore doveva avere resistenza fisica ed essere allenato nel suo
lavoro, alquanto duro, sotto un’elevata calura estiva.
C’erano
in paese alcuni che andavano per la maggiore ed erano richiesti, per cui ci si
prenotava con largo anticipo, per averli a disposizione al momento giusto. Lo si vedeva di primo mattino, prima del
sorgere del sole, con falce e “mantére” sulla spalla, raggiungere la campagna.
C’era
bisogno di alimentarsi bene per il duro lavoro; durante la giornata, al mattino
si consumava la colazione, costituita da pane, formaggio e salumi, il tutto
innaffiato con un buon bicchiere di vino rosso locale; a mezzogiorno si
pranzava, per lo più maccheroni, cui seguivano polpette o pezzi di salsiccia al
sugo; al vespero si procedeva con la merenda con pane, affettati, formaggio e cipolla;
la sera con la cena. Nell’alimentazione non mancavano mai l’insalata di
pomodori ed i peperoni fritti.
Anche
per le donne la mietitura costituiva una gran faticata, perché bisognava
prendere dalle stoppie “li jérmete” (grano mietuto tenuto nella mano sinistra),
che, messi insieme e legati, davano origine al covone (manócchie); questi
ultimi venivano trasportati e raccolti dove venivano erette le biche “l’acchie”,
costituite da 21-22 covoni. Bisognava comporle bene in modo tale che se fosse
piovuto, l’acqua non sarebbe dovuta penetrare all’interno di esse, generando muffa.
I
“massari” festeggiavano la fine della mietitura con un abbondante e squisito
pranzo, costituito da: “cavatelli”, abbondante carne al ragù, buon vino, frutta
di stagione ed ogni altro “ben di Dio” (lu càpe canàle); vi partecipavano tutti
i mietitori e la giornata di lavoro terminava a mezzogiorno.
Terminata
la mietitura, i covoni venivano trasportati sull’aia con asini, muli o con la
treggia (tràule), trainata da muli o mucche appaiate. Questi, poi, con grande
maestria, venivano assemblati in una grande biga (la pesatúre o lu pignóne) con
base rettangolare o rotonda, la cui sommità, a mo’ di tetto, potesse
consentire, per pioggia, lo scorrere dell’acqua senza che penetrasse
all’interno.
Prima
dell’impiego della trebbiatrice, tutto il lavoro veniva fatto con una coppia di
muli o di mucche, i quali trascinavano una grossa pietra (pesatóre) tra i
covoni slegati e sparsi sull’aia per quattro o cinque ore; questa consentiva la
tritatura della paglia e la fuoriuscita dalle spighe dei chicchi di grano.
Successivamente, con del vento favorevole, si separava la paglia dal grano (se
ventelàve lu rane). Vi erano giorni in cui, da una certa ora, per lo più nel
primo pomeriggio, il vento non spirava e si era lì ad attendere che spirasse.
Non mancava qualche imprecazione!
Era
questa un’operazione poco salutare maggiormente per coloro che avevano
affezioni polmonari. In seguito, sempre le donne, con crivelli, davano
un’ultima pulitura al grano, che, messo in grossi sacchi bianchi, a dorso di
muli, veniva trasportato e versato nel granaio.
All’inizio
degli anni ’50 ci fu la prima trebbiatrice. Se non ricordo male, fu il dott.
Luigi Lorenzelli, medico condotto a Baselice, ad acquistarne una. Essa era
costituita da due parti separate: un motore con puleggia, che, tramite cinghie,
consentiva agli organi in legno e metallo della trebbiatrice di adempiere allo
scopo. Dopo qualche anno esse aumentarono di numero e quel lavoro fatto con la
sola forza fisica, con l’ausilio degli animali, scomparve. Per il suo
spostamento, da un’aia all’altra, si provvedeva con il traino di muli o mucche
e solo più tardi, con trebbiatrici più grandi con il trattore.
Faccio
notare che a quei tempi c’era molta solidarietà tra i contadini, i quali si
aiutavano a vicenda nei lavori dove necessitava più manodopera.
La
mietitura e la trebbiatura erano vissuti in allegria ed ad ognuno era affidato
un compito ben preciso; durante lo svolgimento di quest’ultima c’era l’addetto allo
spostamento della paglia, che, talvolta, le donne, con grandi teli, trasportavano
nei pagliai. La paglia, insieme al fieno, costituiva la derrata per muli, asini
e mucche; chi al controllo dei sacchi di grano; chi a menare sull’aia i covoni
dalla grande biga; chi intento a porgere il covone all’operaio, chiamato
“mbuccatóre”, con il compito di introdurli nel battitore della trebbiatrice.
Anche
in paese c’erano degli ampi spazi comunali, attualmente urbanizzati con
costruzioni, dove avveniva la trebbiatura: S. Pietro, Erbastella, al serbatoio,
sopra la Crocella; lì si accumulavano le bighe di coloro i quali non avevano un
grosso quantitativo di frumento. Le bighe, ben costruite, le une accanto alle
altre, costituivano il simbolo della fatica di un anno intero, per avere nella
credenza pane a sufficienza e per fare la pasta di casa.
Ai
nostri giorni, tutto il duro lavoro di un tempo si consuma in poche ore con le
mietitrebbiatrici livellanti. C’è anche da dire che questa coltivazione
nell’agro baselicese si è ridotta enormemente per varie ragioni, non ultima per
sconvenienza economica. In quegli anni, la comunità baselicese, per produzione
di beni alimentari, era più che autosufficiente.
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