Don Leonardo Lepore |
È arrivato
(quasi) all'improvviso e in poche settimane ha travolto metà pianeta e anche il
nostro Paese. E’ il covid-19. Un virus “intelligente e veloce nella
diffondersi” come ha detto un amico medico. In meno di un mese ha cambiato le
nostre abitudini. Ci ha costretto a cedere diritti. Ad una crisi sanitaria si
aggiunge una grave crisi economica. Mutamenti che segnano il presente e (forse)
il futuro. Un tempo in cui anche la spiritualità, la vita religiosa con i suoi
riti si adegua agli avvenimenti. E su questo tempo difficile che stiamo vivendo
abbiamo chiesto alcune riflessioni a don Leonardo Lepore, sacerdote e direttore
dell’Istituto superiore di scienze religiose di Benevento.
L’Italia e il
mondo occidentale in particolare stanno vivendo un momento tribolato. Mai così
difficile dal secondo dopoguerra. Che momenti sono?
"Trovare una specifica definizione che descriva un mondo
assolutamente imbrigliato in una fase di passaggio così critica, è oltreché
difficile anche impossibile. Si possono fare delle distinzioni. Un conto è ciò
che accade all’esterno; un conto è ciò che accade all’interno del
“soggetto-uomo”. All’esterno c’è una grave crisi economica; una dittatura
spietata della finanza; una crisi di intelligenze prestate alla politica; un
pensiero indebolito e fiacco da un punto di vista etico; una spiritualità che
appare come un pesce che fatica a respirare in poche dita d’acqua".
Uno scenario apocalittico.
"Con ciò non si vuole affatto apparire come profeti di sventura,
essendo chiaro che c’è di fronte a tutto ciò anche un preciso contrappunto
fatto di aspetti positivi e di speranze che possono fiorire e che si spera
fioriscano prima possibile. Poi, ciò che accade all’interno. Qui il tema si
sposta sull’individuo, sul suo mondo interiore, sull’intimo di ogni singola
persona. Si aprirebbe evidentemente anche in questo rispetto un panorama fatto
di tinte sia fosche, sia chiare. Tu parli di un momento, non si dovrebbe
definire così – nel senso che momento fa riferimento all’attimo, ad un
passaggio breve, di facile presa –, piuttosto si dovrebbe parlare di una vera e
propria congiuntura storica, di un passaggio importante, di un paradigma che va
spegnendosi in favore di qualcosa di nuovo, difficile da cogliere, ma che inizia
a muoversi come un segmento embrionale".
Nella Bibbia,
soprattutto nel Vecchio Testamento, si legge spesso di pestilenze e di
carestie. Vengono addirittura presentate come castighi. Da sacerdote e studioso
delle Sacre scritture pensi che, forse, ci siamo spinti un po’ (troppo) oltre?
"Il Dio biblico è il Dio dai mille volti. Nel testo sacro a pagine
che trasmettono della divinità una serie di espressioni segnate dalla dolcezza,
dall’amore, dalla bontà, si affiancano non raramente anche espressioni che stordiscono
per una certa crudezza, parole di violenza, promesse di punizioni, castighi etc.
Potrebbe essere utile leggere quei testi che fanno da introduzione al grande
racconto del diluvio universale (Gn 6,5 – 9,17), dove l’inizio è drammatico:
“Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che
ogni desiderio concepito dal loro cuore non era altro che male. Il Signore si
pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo”. Credo che
la Bibbia offra dei percorsi di riflessione non tanto destinati a spiegare
l’origine del male, piuttosto ad indicare come si possa fronteggiarlo, come
affrontarlo con spirito umano unito al sostegno divino. Se riflettiamo per un
istante: a cosa serve dire che Dio castiga? Cosa dovrebbe castigare? Siamo noi
peggiori di chi ci ha preceduti? Ma ogni generazione ha affrontato sofferenze,
problemi, calamità… Non esiste generazione che non si sia sentita castigata".
E dunque?
"La
Bibbia ha una parola diversa: non serve indagare le cause di ciò che accade;
serve trovare la forza per venire fuori da un presente affatto sereno. La
Bibbia non risponde alla domanda: perché accade? La Bibbia ci aiuta a trovare
una risposta alla seguente sollecitazione: cosa significa quello che sta
accadendo? Cosa significa per me, per noi? Una pubblicazione di pochi anni fa,
peraltro offerta da un docente della prestigiosa università di Oxford e
pubblicato per i tipi della celebre Yale University Press [n.d.r. David M.
Carr, Holy Resilience. The Bible’s Traumatic Origins, New Haven &
London 2014], tenta di dimostrare come la Bibbia sia stato il testo che ha
segnato – in periodi di grave crisi – il punto fondante per la ripartenza.
Nelle difficoltà è stupido formulare accuse, si deve piuttosto scavare e
riscoprire la forza per ricominciare, per eventualmente correggersi e, in
ultima istanza, per capire cosa possiamo migliorare di noi e del nostro modo di
vivere. Una tale forza abita nel fondo segreto delle parole sacre".
Nell'ultimo mese molte abitudini sono cambiate. Cambiamenti impensabili fino a qualche
settimana fa. Anche la Chiesa si è adeguata a questa improvvisa trasformazione.
Riti e celebrazioni annullati. Cosa succede?
"Succede che la Chiesa vive la storia degli uomini. Essa non è al di
sopra degli eventi. È perfettamente incarnata nella società degli uomini, pur
portando in un vaso di creta il “tesoro” della. In quanto incarnata, la Chiesa
si attiene alle misure di prudenza e di intelligenza. La fede non è nemica del
razionale e del ragionevole. Si crede con intelligenza. Ora, in questo periodo
è un atto di prudenza, di intelligenza, quello di osservare determinate
discipline al fine di proteggere gli altri. Credo che gli inviti del Papa in
primis e dei vescovi in secundis siano segnati da prudente
intelligenza e da intelligente prudenza".
Quali sono le
sensazioni che un sacerdote sperimenta durante la celebrazione eucaristica,
soprattutto di domenica e dei giorni festivi, quando celebra da solo, senza l’assemblea?
"In molti sacerdoti si respira un certo disagio. Ho ascoltato un
amico che mi diceva: “fino ad oggi non mi era mai capitato di celebrare messa
da solo!”. C’è dispiacere. C’è senso di solitudine. C’è percezione di un vuoto.
La pesantezza dell’assenza. Il pastore è tale perché vive costantemente a
servizio del gregge. Umanamente tutto ciò si spiega e si capisce. Molti
sacerdoti avvertono un senso di dispersione e di solitudine. Tuttavia, c’è
anche il rovescio della medaglia, nel senso che un tale responsabile isolamento
abbia – credo – tanto da insegnare a noi preti. Insegna il silenzio, la
concentrazione, convince nell’idea che non siamo delle rock stars, delle
celebrità del sacro che possano andare in crisi se dinanzi non hanno un
pubblico. Insegna che siamo servi della comunità, servi che si muovono con
discrezione e quando necessario con spirito di riservatezza e in pieno nascondimento.
Un confratello mi diceva: “passo giornate intere in Chiesa, prego per tutti; ho
preso l’elenco dei parrocchiani e mi ricordo di loro, famiglia per famiglia".
La gente
muore e se ne va senza poter ricevere l’ultimo conforto, nemmeno quello religioso.
Senza nemmeno l’ultimo saluto della comunità parrocchiale.
"Questo è davvero drammatico. Ho celebrato due esequie da quando sono
entrate in vigore le norme del governo. In un caso, quella signora accompagnata
al cimitero non ha avuto nemmeno la presenza dei suoi figli perché due di essi
erano rimasti bloccati al Nord, senza possibilità di scendere. Un dramma. Un
vero e proprio dramma. I riti funebri in un certo senso ci offrono anche una
possibilità di riconciliarci con l’idea della morte: pur lasciandoci nel
dolore, ci aiutano a relazionarci ad essa con un afflato di speranza. Senza la
mediazione del rito, si è soli doppiamente; si rimane ancora più tristemente
muti dianzi al dolore e alla sofferenza".
La Chiesa
beneventana come sta affrontando questo momento di difficoltà? Tra l’altro
questo è il periodo più forte e più importante dell’anno liturgico.
«Debbo dire e dare risalto ad alcuni aspetti che mi sembrano positivi
ed anche importanti. Il nostro arcivescovo ci ha indirizzato una lettera breve
ed intensa. Non ci ha fatto mancare parole di incoraggiamento ed espressioni di
vicinanza. Sto accompagnando in questo periodo una comunità di monache di
clausura stretta. Ogni volta che vado lì apprezzo la forza di quella preghiera.
C’è un modo di essere vicini che è appunto quello spirituale, di chi prega, di
chi condivide le ansie e le preoccupazioni. C’è un mondo vivido, palpitante,
che non fa chiasso e non cerca la ribalta a tutti i costi… eppure sostiene,
prega, spera. Ci sono famiglie che si riuniscono recitando il rosario e che
alla domenica si ritagliano un momento per leggere le letture offerte dalla
liturgia. A me tutto questo insegna e dice tanto".
Che Pasqua
sarà?
"Una di quelle dove ci sforzeremo di gustare le cose essenziali.
Dove, pur a malincuore, ascolteremo la lezione di chi ci invita ad
accontentarci di poco e a mettere allo stesso tempo il cuore nella gioia".
Prima di
lasciarti, provo a chiederti: come stai vivendo questa situazione? Lontano dai
tuoi affetti familiari?
"Siamo in isolamento alla casa del clero di Benevento in sei
sacerdoti. In piena solitudine. Gli affetti più cari sono a casa. Abbiamo
imparato a fare il bucato, a cucinare, a stirare. Ti lascio immaginare con
quali risultati… Impariamo giorno per giorno a non sprecare e ad accontentarci
di quello che c’è. Il più anziano, che ha superato gli ottant’anni, spazza e
lava i corridoi. Ci sono quotidianamente scene simpatiche. Impariamo anche a
volerci bene e a superare, ridendo di noi, quelle incomprensioni che solitamente
si determinano quando si vive in spazi ristretti. Ogni giorno celebriamo la
messa, poi dedichiamo circa due ore all’adorazione eucaristica, abbiamo un
ricordo per tutti. Ci sentiamo disarmati di fronte a tutto ciò che accade nel
mondo; eppure, speranza e fiducia non ci abbandonano: il Signore non ci farà
mancare il suo sostegno e la sua vicinanza".
Nessun commento:
Posta un commento